La salute mentale è un argomento ancora poco trattato in Italia, sia nel privato sia a livello pubblico. Ora più che mai, con il pericolo e le restrizioni sociali del Covid-19, si sta diventando sempre più consapevoli della sua importanza, e se l’opinione pubblica ha iniziato a parlarne negli ultimi anni, il merito è anche di alcuni libri – memoir soprattutto – che hanno aperto la strada a questi temi, che ancora fanno paura – L’approfondimento

Il discorso intorno alla salute mentale non è mai stato urgente come in questo periodo storico, in particolare da quando il pericolo Covid-19 è entrato nelle vite di tutti. L’isolamento sociale imposto dai governi ha sconvolto le abitudini di milioni di persone nel mondo, la cui calma interiore viene quotidianamente turbata da ansie, paure e bisogni primari negati. Per non parlare delle persone più fragili, che più risentono di tali limitazioni, costrette lontano dagli studi degli psicologi o degli psichiatri che li hanno in cura e senza la possibilità di muoversi liberamente nello spazio aperto.

L’esigenza di rassicurazione collettiva porta in evidenza nei media un linguaggio a cui si era poco avvezzi, quello della psicologia, dell’interiorità e delle emozioni, con una naturalezza che fino a qualche tempo fa non esisteva: un piccolo passo per sdoganare dei temi ancora poco diffusi, dissimulati dietro la vergogna. Ad oggi, in Europa soffrono di patologie psicologiche o psichiatriche oltre 164 milioni di persone e l’OMS stima che entro il 2030 la depressione possa diventare la malattia cronica più diffusa, e non è improbabile che i numeri possano aumentare a causa delle conseguenze di questa drammatica emergenza sanitaria.

Nel corso della vita, il 15% della popolazione mondiale rischia di incappare in un episodio depressivo, anticamera di una patologia conclamata e difficile da estirpare. Con conseguenze spesso incolmabili: la maggior parte degli adulti arriva a sviluppare patologie croniche, e i percorsi di psicoterapia sono spesso a carico del singolo.

Questi dati raramente ricevono le prime pagine, specialmente in Italia, ma grazie all’influenza di quanto avviene all’estero, il tema sta conquistando sempre maggiori spazi fuori dalle nicchie specialistiche. Non è ancora facile parlare di salute mentale perché ancora troppi sottovalutano l’entità del problema a livello individuale e sociale, ignorando la sofferenza del singolo, ma il peggio è che spesso mancano persino le parole per parlarne.

La letteratura (così come l’arte, la musica e le arti visive) degli ultimi anni ha permesso di mettere da parte la paura, la diffidenza e, in definitiva di abbattere, lo stigma sociale che circonda le malattie e in generale il disagio mentale, portandolo sulla via della normalizzazione.

Il memoir è per definizione la forma della confessione, e si deve a Elizabeth Wurtzel (1967-2020), fino a quel momento una “signorina nessuno” che scriveva di musica per il New Yorker, il merito di avergli conferito una dignità letteraria con la pubblicazione del libro-verità sulla depressione, Prozac Nation (1994, tradotto in Italia da S. Lauzi e E. Muratori per Rizzoli con il titolo La felicità difficile e attualmente fuori catalogo).

prozac nation

Wurtzel, venuta a mancare a 52 anni lo scorso gennaio a causa di un cancro al seno, era stata definita una “Sylvia Plath con l’ego di Madonna”: il riferimento alla scrittrice de La campana di vetro (Mondadori, tradotto da Adriana Bottini e Anna Ravano), uno dei primi romanzi ad affrontare la depressione e il disagio esistenziale femminile con tanta crudezza, non è casuale. La sua era una voce indisponente ma imprescindibile, la prima ad aver squarciato il velo di Maya sui disturbi mentali, facendosi carico di lavare i panni sporchi e di mostrare la propria strisciante disperazione sulla pubblica piazza. Fino a quel momento pochi sapevano che caratteri avesse la depressione, quale fosse il suo volto nascosto, e quanto, in realtà, si avvicinasse a un tipo di sofferenza comune, a tratti esistenziale, che può essere risolta con l’aiuto medico e di psicofarmaci. 

Gli effetti di questo libro sulla narrazione contemporanea risuonano fino ad oggi, e in particolare in alcune serie tv d’impatto che sono uscite negli ultimi anni: da Nadia, la sboccata protagonista di Russian Dolls (Netflix), la cui ciclicità ricalca proprio il loop autodistruttivo di chi entra in una dipendenza e non riesce a liberarsene, fino alla protagonista di Undone (Amazon), tentativo ben riuscito di raccontare la ricerca della propria identità adulta, affrontando i difficili traumi del passato.

Il britannico Matt Haig (1975), oltre ad essere un pluri-premiato scrittore per l’infanzia, ha pubblicato saggi e romanzi sulla salute mentale a partire dalla propria esperienza e diventando un divulgatore con un buon seguito sui social (circa 500mila followers). Il suo libro Ragioni per continuare a vivere (2015), è diventato un bestseller in Regno Unito proprio perché è riuscito a restituire con disarmante onestà la terribile esperienza con la depressione, trattandola in modo leggero, ma non superficiale.

fame roxane gay

Anche Roxane Gay (1974) ha sviscerato nello straziante memoir Fame (Einaudi) il disturbo alimentare con cui convive dalla pubertà, quando subì uno stupro che compromise totalmente la percezione del proprio corpo: per evitare che diventasse un’esca per ulteriori predatori, Gay iniziò ad abbuffarsi di cibo e a mettere su peso, fino all’obesità, per crearsi addosso una “gabbia” di protezione al fine di rendersi non attraente allo sguardo maschile. Questo libro di Gay è particolarmente potente perché è in grado di tendere un ponte tra la risoluzione di un trauma personale e il contesto sociale profondamente misogino in cui spesso le donne sono costrette a destreggiarsi ogni giorno, con alte probabilità di sviluppare disturbi mentali.

A fumetti, ma pur sempre in forma di memoir, racconta la propria esperienza Alison Bechdel (1960) in Fun Home (traduzione di M. Recchiuti per Rizzoli, 2007): l’accettazione della propria omosessualità (e di quella del padre) e il proprio disturbo ossessivo-compulsivo vengono narrati attraverso le sedute dalla psicanalista.

Trattare e gestire la materia familiare, a maggior ragione incandescente perché coinvolge un probabile suicidio, è proprio l’importante ruolo della psicoterapia, reso noto, in tutta la sua semplicità eppure con estrema apertura, grazie a questo libro, e che continua nel libro successivo Sei tu mia madre? (traduzione di I. Zani, Rizzoli Lizard) che analizza il conflitto materno.

Desiderio di verità e coraggio sono ciò che accomuna la maggior parte di queste opere: un altro importante fumetto che tratta il disturbo bipolare, anche noto come maniaco-depressivo, è Marbles, di Ellen Forney (Edizioni BD, 2014). L’autrice non si pone limiti nel descrivere, con dovizia di particolari, la folle routine tra alti-altissimi e bassi-bassissimi, accostando ogni episodio e variazione d’umore a un preciso momento della propria malattia. Un disturbo che la accomuna a tanti artisti, come Vincent Van Gogh, per fare un noto esempio.

Oltre al sollievo – così come il dolore – di dare un nome alla propria malattia, l’autrice apre un importante quesito sulla relazione tra arte e malattia mentale: per creare arte bisogna per forza soffrire? La risposta, per quanto banale, non costituisce uno spoiler: senza un’adeguata cura per la propria malattia, gli artisti riescono a malapena a sopravvivere, figurarsi a creare (una conclusione analoga a quella esposta da Hannah Gadsby nello special comico Nanette). In Italia, un’opera a fumetti che più da vicino affronta i temi della salute mentale è Cheese di Zuzu (Coconino Press, 2019), che racconta il disturbo alimentare della protagonista, al centro di un rapporto triangolare con altri due adolescenti nella provincia italiana. 

l'estate senza uomini siri hustvedt

Le opere di Siri Hustvedt (Minnesota, 1955), che siano narrativa o saggistica, sono quasi sempre un’indagine sui temi della sanità mentale e del suo turbamento. A partire dal suo esordio, The Blindfold (pubblicato da Marsilio nel 1999 come La benda sugli occhi e ora fuori catalogo), che venne definito da David Foster Wallace come il miglior esempio di “postmodernismo femminista”, continuando con L’estate senza uomini e Il mondo sfolgorante (editi da Einaudi, traduzioni di Gioia Guerzoni). Il grande tema di questa scrittrice americana è infatti la follia intesa come disturbo della quiete mentale, che riguarda specialmente la psiche femminile: che sia per colpa di un dolore come di un tradimento o di un abbandono, che sia perché ci si sente schiacciati da una società che frena l’ambizione e le potenzialità delle donne. Nel saggio La donna che trema (Einaudi, traduzione di Gioia Guerzoni), Hustvedt analizza, intrecciando psicoanalisi e neurologia, un problema che l’affligge personalmente: episodi di convulsioni legati alla sua emicrania cronica.

L’uomo che trema è invece il titolo del romanzo-memoir del 2018 di Andrea Pomella, sempre di Einaudi: come ha scritto proprio su ilLibraio.it la scrittrice Violetta Bellocchio, “il memoir sulla depressione che in Italia mancava” per fare “il punto su quanto crediamo di sapere riguardo la salute mentale”. Lo scrittore sviscera, dall’inizio alla fine, la convivenza con la depressione maggiore. Insieme ai dettagli più intimi del malessere e il tentativo di risolverlo, tra psichiatri e psicofarmaci, l’autore scava inevitabilmente nella propria storia personale: diventare padre costituisce il punto di svolta per far fronte all’abbandono paterno subito e alle sue conseguenze, e anche ad affrontare una volta per tutte una terapia farmacologica, per quanto invasiva.

l'uomo che trema andrea pomella

Il libro di Pomella è anche in controtendenza rispetto alla letteratura sulla salute mentale, che sono prerogativa femminile anche in Italia, forse a causa dello stereotipo per cui la fragilità mentale appartiene soprattutto alle donne. Con la conseguenza che sono soprattutto queste ultime a scriverne, senza rischiare di mettere in discussione il proprio status: le stesse ragioni per cui gli uomini che commettono suicidio sono il doppio delle donne, ovvero perché in molti casi hanno minor confidenza con la gestione delle proprie emozioni e fanno molta più fatica a chiedere aiuto.

Negli ultimi anni, in Italia, a parlare di disturbi mentali sono state tante autrici: nel 2014 proprio Violetta Bellocchio ha pubblicato con Mondadori il memoir Il corpo non dimentica, a proposito del proprio problema con l’alcolismo, mentre è del 2017 l’esordio di Marta Zura-Puntaroni con Grande Era Onirica (minimum fax), un romanzo non autobiografico ma liberamente ispirato alla propria esperienza personale con la depressione.

Nel 2019 sono state pubblicate due importanti testimonianze: quella di Simona Vinci, con Parla, mia paura (Einaudi) alla prese con attacchi di panico e depressione e l’esordio di Fuani Marino che affronta la depressione post-partum e il tentativo di suicidio in Svegliami a mezzanotte (Einaudi). Scritture difformi per stile ma contraddistinte dal coraggio e dalla volontà di superare la vergogna: se ancora la società stenta a riconoscere anche solo la loro esistenza in quanto malattie, la scrittura in questi casi diventa il primo passo per affermarne la normalità.

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