“La scelta di misurarsi con il memoriale va presa come sintomo di un desiderio antico: il libro è lo strumento con cui tentare la sistemazione di una vita frammentata, la terapia corre parallela alla seduzione del tempo reale…”. Su ilLibraio.it Violetta Bellocchio racconta”L’uomo che trema” di Andrea Pomella, il memoir sulla depressione che in Italia mancava – L’approfondimento

Uno dei tratti significativi del nuovo libro di Andrea Pomella è la capacità di accogliere al suo interno tanti piccoli libri distinti. Se l’ambizione salta subito all’occhio – ecco il memoir sulla depressione che in Italia mancava, facciamo il punto su quanto crediamo di sapere riguardo la salute mentale  – a marcare la singolarità del testo c’è l’abilità della composizione: i salti avanti e indietro nel tempo intrecciano il presente di una faticosa terapia all’infanzia e all’adolescenza, un passato prossimo ormai irriconoscibile. Ma poi arriva il gelo di un capitolo che si potrebbe leggere come racconto indipendente, quello in cui Pomella, a mano ferma, ripercorre i “dieci interminabili anni” trascorsi nell’ufficio dove era un impiegato parastatale. “Da disoccupato”, scrive, “ero arrivato al punto da non poter più guardare nemmeno un telegiornale, tanto ero roso dall’invidia per chiunque avesse un lavoro”.

Purtroppo il sollievo dello stipendio stabile non ha cambiato niente, al centro della scena si è collocata la realtà di un’occupazione senza prospettive di crescita o soddisfazione tangibile. L’assenza di un senso ha rischiato di sbranarsi vivo l’autore molto più di una vicenda familiare irrisolta ma non straordinaria.

L'uomo che trema andrea pomella

L’uomo che trema (Einaudi) ha avuto una nascita quasi pubblica. La decina di pagine iniziali, nei fatti, ripropone un longform uscito l’anno scorso su Doppiozero: è la fotografia della giornata estiva in cui Pomella, spiazzato da un momento di oscurità assoluta non riconducibile a un generico “cattivo umore”, viene messo in contatto con uno psichiatra, ottiene la diagnosi e le ricette corrispondenti, affronta, in linea teorica, la storia della sua depressione. Ed è una storia lunga e intricata – di solito lo sono – che è diventata un libro proprio mentre Pomella stava per ricevere molta attenzione grazie ad Anni luce (Add), quando prima veniva considerato soprattutto un critico acuto, attivo in una varietà di riviste.

Ma per chi è stato abbastanza abile o fortunato da sapere cosa guardare, Pomella aveva già disseminato la sua produzione di riferimenti a un disagio umano dotato di radici profonde: l’impatto del divorzio tra i genitori stava in un racconto personale apparso su Succede Oggi, la brutalità del posto fisso affiorava in un articolo del Manifesto. La scelta di misurarsi con il memoriale, quindi, va presa come sintomo di un desiderio antico: il libro è lo strumento con cui tentare la sistemazione di una vita frammentata, la terapia corre parallela alla seduzione del tempo reale; Andrea P. guarirà, alla fine? Si può parlare di pieno recupero per una forma depressiva oppure è meglio pensare a una coabitazione civile, tale da non offendere né il soggetto né la patologia?

È una nonfiction rigorosa, questa. Pomella si racconta con distacco, le attenuanti emotive le riserva alle persone care. Risulta autentico nel rifiuto di offrire soluzioni fatue, ma anche nel ritmo incessante con cui si mette in gioco. Analizza e restituisce la realtà fisica della malattia – l’imbarazzo misto a noia delle sale d’aspetto dove non si è mai davvero soli, gli effetti collaterali dell’assunzione di farmaci, il periodo obiettivamente sgradevole in cui si attende che la chimica del corpo cominci a reagire, ammesso reagisca – e il colore individuale della malattia in lui, attraverso quello che gli è mancato (un padre assente che è stato il bambino a rifiutare) e di quello che, nonostante tutto, ha avuto (una relazione affettuosa, un figlio di cui prendersi cura, una rete di amici solidali).

Ma il dato più felice del libro è l’orgoglio con cui Pomella padroneggia la parola come forma espressiva. Non sta scrivendo soltanto perché ha una storia spendibile; sta scrivendo per esorcizzare la paura di non essere mai nulla, e spesso, nell’arco del libro, è questo bisogno trascinante che apre la pagina, la rende necessaria. Ci sono squarci visionari, ad esempio, dove il protagonista è l’elemento irrazionale. Il nuovo fantastico italiano può sempre stupire, ma è difficile credere che nei prossimi mesi spuntino passaggi più weird di quelli in cui Pomella rende noti determinati episodi della sua vicenda familiare o un’abitudine che lo lega alla sua compagna con tanta forza da portare anche il lettore scettico ad avallare l’ipotesi del viaggio nel tempo. Qui sta, paradossalmente, l’integrità fondamentale del memoir: nel matrimonio tra la massima fedeltà ai fatti e la forma pura, elettrica.

Da ragazzino Pomella si immaginava musicista rock (e oggi ricorda con vicinanza fraterna lo scomparso cantautore Elliott Smith), ma per un periodo è stato attivo anche come pittore. La vena gli è rimasta dentro. La si vede nel senso dell’equilibrio che gli consente di ridisegnarsi addosso un libro intero e di infilare insieme la frase universale, quella che si stacca dal testo al primo sguardo. “Io sono un abusivo, uno che non può permettersi di abitare il mondo in scioltezza. Perciò mi capitano situazioni di questo tipo, per ricordarmi chi sono, o meglio, cosa non sono.”

Dell’Uomo che trema si parlerà molto. Arriva con il bollino della letteratura impegnata, ha una voce maschile adulta che dal dolore personale allarga il campo alla crisi collettiva della forza (se un uomo si trova fiaccato dall’inutilità economica, sociale e di genere, dove andrà a recuperare un senso qualunque dello stare al mondo?). I coming out in materia di vulnerabilità psichica si contano ancora sulle dita di una mano, i codici culturali che hanno condizionato la possibilità di raccontarsi in lingua italiana ci hanno imposto troppo a lungo il paradigma di caduta e risalita (“è stato un brutto periodo ma l’ho superato”), e se in libreria non è mai venuta a mancare la manualistica di auto-aiuto, ai singoli oggetti non si è data particolare dignità. Adesso abbiamo un testo potente. Il primo di molti, si spera.

 

L’AUTRICE – Scrittrice, traduttrice e giornalista, Violetta Bellocchio (nella foto di Valentina Vasi) è l’autrice del memoir Il corpo non dimentica (Mondadori, 2014). Ha fatto parte di L’età della febbre (minimum fax, 2015) e di un’altra antologia, Ma il mondo, non era di tutti? (Marcos y Marcos, 2016), curata da Paolo Nori. A sua volta ha curato l’antologia di nonfiction Quello che hai amato. (Utet, 2015). Ha pubblicato Mi chiamo Sara, vuol dire principessa (Marsilio) e il suo ultimo romanzo, uscito per Chiarelettere, nella collana Altrove, è La festa neraQui i suoi articoli per ilLibraio.it.

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