Negli Stati Uniti la ristampa di “Prozac Nation – Young and depressed in America”, memoir di Elizabeth Wurtzel sulla depressione e gli psicofarmaci, caso letterario negli anni ‘90. Un libro importante non solo per la potenza della scrittura, ma anche per aver contribuito a smantellare uno stigma: quello verso i disturbi mentali e gli psicofarmaci – L’approfondimento

Viviamo nella società dell’ansia. Si è parlato diffusamente nel 2017 di come stiamo vivendo nell’età “dell’ansia”, rendendo pubblico quello che per molti è una realtà nota. L’ansia, intesa come disturbo psicologico generico, ma potenzialmente patogeno, affligge la gran parte delle persone in misura diversa, a causa dello stile di vita stressante e frenetico delle nostre esistenze influenzate dalla tecnologia. L’ansia, forse, è (diventata) uno status, un’abitudine quasi, e in quanto tale si è ritrovata protagonista di molti prodotti culturali, da libri, a serie tv, fino a blog e riviste.

Il New York Times ha paragonato l’ansia di oggi alla depressione sofferta dalla generazione passata: “Prozac Nation Is Now the United States of Xanax”, il riferimento è al romanzo autobiografico di Elizabeth Wurtzel, uscito nel 1994 e diventato libro di culto per la totale onestà nel parlare in prima persona dell’esperienza della depressione e degli psicofarmaci.

Prozac Nation

Il 2017 è stato anche l’anno della ristampa del libro negli Stati Uniti (per Mariner Books) e un’occasione per celebrare quest’opera e la sua autrice. Dopo un decennio di vita privata, che ha compreso una battaglia con il tumore al seno e il primo matrimonio a 50 anni, Wurtzel si è nuovamente esposta ai riflettori come columnist e attraverso i social media.

Wurtzel, laureata ad Harvard, giornalista per Rolling Stone e il New Yorker, è stata successivamente autrice di altri libri provocatori come Bitch che hanno contribuito a costruire un personaggio-personalità letteraria vigorosamente femminista, una “Sylvia Plath con l’ego di Madonna”, come dichiara la sua bio sui social. Si è fatta carico di rappresentare una generazione: quella che assume psicofarmaci per stare bene, o forse semplicemente per sopravvivere. Il memoir è la forma scelta per raccontare la difficoltà di crescere segnati da un disagio profondo e difficile da identificare. Il periodo è quello degli Stati Uniti rampanti degli anni ‘80, che non conoscevano battute di arresto, figurarsi il “fallimento” del disturbo depressivo: nel corso di un’adolescenza contraddistinta da autodistruzione e tentativi di annichilimento e suicidio, una sofferenza protratta senza tregua da uno psicanalista a un altro, finalmente arriva la promessa di una soluzione sicura, quella del Prozac, uno dei primi antidepressivi che al contrario dei triciclici e delle benzodiazepine promette agli americani la felicità senza controindicazioni. Il libro è uscito nel 1994, lo stesso anno in cui si è tolto la vita Kurt Cobain, la prima rockstar che abbia dedicato una canzone al litio, un antidepressivo, a dimostrazione di quanto gli psicofarmaci stessero vivendo un periodo di notorietà nella cultura americana. In questo, Elizabeth Wurtzel incarna il ruolo dirompente di una rockstar per la letteratura (lei che tanto rimpiange di non poterlo essere per la musica). Prozac Nation in italiano è stato poi tradotto come La felicità difficile. Il mio viaggio nell’inferno della depressione e ritorno (Rizzoli, 1996), un titolo che devia l’attenzione dagli psicofarmaci, ponendola sul tema della salute mentale. Il cosiddetto stigma che circonda il disturbo psicologico era onnipresente nella società, motivo per cui il libro in questione ha fatto tanto parlare nell’America dell’epoca, ma anche nel resto del mondo.

Quanto può essere difficile riconoscere (e verbalizzare) il proprio disagio psichico? La grandezza di uno scrittore che parla di salute mentale compromessa sta proprio in questo: la scrittura non sostituisce lo psicoterapeuta, non ha niente di salvifico eppure è uno strumento necessario. Non è sufficiente a salvare le vite degli scrittori che sono affetti da depressione (come David Foster Wallace o Hemingway, ad esempio), perché altrimenti sarebbero sopravvissuti grazie all’abilità di una scrittura grandiosa. Wurtzel aveva scritto di Wallace, dopo il suo suicidio, in un articolo che prova a spiegare, a chi non è depresso e a chi non scrive per professione e per talento, quanto costi la relazione che c’è tra questi due aspetti. In Prozac Nation, afferma: “Ai non pochi lettori che mi hanno detto di aver trovato il libro irritante e noioso, ho risposto: ‘Bene, benissimo: significa che ho ottenuto lo scopo che mi proponevo. Se qualcuno si è sentito frustrato o adirato, significa che ho saputo trasmettere il senso di inutilità che provano quasi tutti coloro che nella vita di tutti i giorni devono trattare con un vero depresso. In una persona depressa c’è molto narcisismo e molta introversione, due aspetti così profondi e intensi da renderla incapace di dimenticare se stessa abbastanza a lungo per vedere il bene e la bellezza del mondo intorno a lei”.

A scrivere di depressione e disagio psichico prima di Wurtzel ci sono state altre scrittrici, tra cui Sylvia Plath nel romanzo La campana di vetro e Susanna Kaysen in Ragazza interrotta. Il merito di queste scrittrici, egoriferite al punto da dedicare la scrittura di un intero libro alla propria malattia, al tempo stesso dimostra che la scrittura è utile: perché nel momento in cui la malattia viene resa nota, sviscerata, apre lo spiraglio alla conversazione, la mette in relazione alle altre persone, che, come alcuni psicologi affermano, è l’essenza stessa della psicoterapia. La scrittura, dunque, mette in relazione, crea legami, costruisce una dialettica e quindi spinge fuori il paziente, lo scrittore, da sé stesso. La scrittura da sola non ha salvato Wurtzel, la farmacologia forse, o molto più probabilmente entrambe.

“Avevo così tanta paura di rinunciare alla depressione, avevo paura che in qualche modo la parte peggiore di me fosse in realtà tutto ciò che ero. (…) La depressione provoca assuefazione come molte sostanze e molti modelli di comportamento, e come questi vizi è triste ma anche difficile da spezzare”. Ma la depressione non ha una sola forma e spesso produce altri sintomi, come l’autolesionismo e la dipendenza da droghe: Wurtzel mette a nudo sé stessa ancora una volta ed espone la sua esperienza, successiva a Prozac Nation, in un altro memoir, More, now, again (Vertigine, Frassinelli, 2003).

In una recente intervista, l’autrice dichiara: “L’idea che a qualcuno potesse interessare leggere della mia vita sembrava folle a chiunque. La memoria è una costruzione. L’idea che ci sia qualcosa di diverso tra scrivere un memoir e fiction è folle: sono la stessa cosa. Stai costruendo un racconto”.

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