I classici? Una catena ininterrotta nel tempo che tiene conto dei tempi. Su ilLibraio.it la riflessione di Mario Baudino a partire da “Classici in cammino”, il nuovo libro di Giorgio Ficara, e da alcune tendenze in atto: forse ci stiamo avventurando in un mondo in cui i classici, che per Francesco De Sanctis “ci innamorano alla vita”, sono destinati a sparire?

L’idea centrale di Classici in cammino (Marsilio), il libro di Giorgio Ficara che raccoglie saggi sul Trecento e sulla contemporaneità, su Leopardi e, poniamo, Giuseppe Pontiggia o Marziano Guglielminetti, è una di quelle intuizioni grazie alle quali è possibile un discorso critico e saggistico che, senza rinunciare al rigore accademico, non se ne rende schiavo. È il punto di vista di un critico-scrittore: che “guardando anche di sfuggita a Virgilio, poi a Dante e a Boccaccio” propone l’immagine di una “brigata in cammino”.

La coppia della Commedia vale come significativa icona di qualcosa che è accaduto e anzi non cessa di accadere: perché, come in una staffetta, “le storie e i miti raccontati lungo la strada dal primo che prende la parola sembrano magistrali e compiuti per anni o per secoli. E lo sono.

Poi, nella compagnia interviene un secondo”, e “continua quei racconti che, già alle prime battute, si vedeva che non erano conclusi”.

È come la corrente d’un fiume, non certo il Lette dell’oblio, ma l’onda della memoria.

Talché “qualcosa, per di più, nella memoria del secondo tradisce necessariamente il racconto del primo, posto che un primo, in sé, esistesse e non fosse piuttosto, già all’origine, il frutto di un innesto. Così, ingrossando le sue fila nel corso del tempo, voltando e rivoltando per strade e stradette, la brigata non si arresta né si zittisce”.

Copertina del libro Classici in cammino

Questi sono i classici. Una catena ininterrotta nel tempo che tiene conto dei tempi. Sarebbe oggi impossibile “essere Petrarca”, osserva ad esempio Ficara, ma sottolinea come un poeta contemporaneo, Milo De Angelis, “tra gli ultimissimi, nella brigata, a prendere la parola” scrive una poesia ricalcando la stessa “architettura concettuale” del Canzoniere pur essendo pienamente nel nostro tempo, oltre ogni petrarchismo possibile.

Si potrebbero citare molte altre situazioni consimili, dato l’ampio orizzonte di letture e analisi, soprattutto quelle centrali sul tema della lontananza sentita spesso come irreparabile dai moderni, e pure non tale da non poter camminare ancora insieme: perché leggendo un classico, “a volte” almeno, “vorremmo essere come lui”. Non ci riusciamo, ma siamo intanto insieme a lui, parliamo con lui, e il lungo lascito si riproduce.

Può accadere che se ne voglia fare tabula rasa, che se ne sfidi l’ordine, che lo si contesti; e tuttavia restiamo in modo diverso, dialettico, magari conflittuale, sullo stesso cammino. La “brigata” si nutre di amore e di rotture, mai di oblio o noncuranza.

Ora però qualcosa sembra cambiare ed è a questa contingenza che va la sfida del libro. Si profila infatti qualcosa di radicalmente diverso: non più la critica ma l’indifferenza, che considera persino elegante “l’ignoranza assoluta”; si impone così, per citare una battuta di Giuseppe Pontiggia, una sorta di tradizione americaneggiante secondo la quale “la storia della Grecia e di Roma è un minuscolo precedente della storia dell’Oregon e dell’Ohio”.

Lo scrittore di I contemporanei nel futuro non prevedeva forse che, pochi anni dopo la sua scomparsa, si sarebbe andati ben oltre, guardano i classici con la lente del gender e riducendoli ai detestati “dead white males”: ma in qualche modo aveva visto lontano, anche se tutto è già stato annunciato e persino è accaduto in altre forme o con altri linguaggi. Ficara ci ricorda al proposito, e con una punta di divertimento, un Filippo Tommaso Marinetti intento “a strepitare” contro “i geni morti”, e non solo lui ma molti esponenti delle avanguardie novecentesche.

Siamo però qui di fronte a una delle costanti ragioni politico-identitarie di tutti i movimenti avanguardistici (e post-tali: anche il Gruppo ’63 strepitava contro le “Liale del Novecento”, ovvero Cassola e Bassani); mentre il fenomeno, ora, pare spingersi  oltre la polemica (e l’autopromozione) letteraria – verso la quale non ha un vero interesse, essendo fondamentalmente ideologico.

Forse ci stiamo davvero avventurando in un mondo in cui i classici, che per Francesco De Sanctis “ci innamorano alla vita”, sono destinati a sparire, confinati fra scartoffie polverose, o immolati come capri espiatori. I segni dell’autodafé non mancano, persino nelle sedi dove si esibisce il culto del libro come valore supremo.

L’ultimo è di pochi giorni fa. Paolo Di Paolo ha innescato infatti sui social una discussione dopo aver notato per primo come, a distanza di un mese, due autori bestseller abbiamo liquidato Marcel Proust con un’alzata di spalle. Interessante coincidenza. Uno è Ken Follet, e l’altra è Valérie Perrin, che al Salone del libro di Torino aveva proclamato “di averlo mollato per noia”: esternazione accolta con un fragoroso applauso.

Di questo passo, rischia davvero, la lunga camminata, di arrestarsi in una nuvola di polvere, o di essere poco più che un corteo di fantasmi? Ficara, per buona sorte, e per lucidità di analisi, ancora ne dubita. Anzi, indirettamente ci convince che no, non può proprio finire così.

 

 

 

 

 

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