E se un mito intramontabile come l’”Orlando Furioso” fosse raccontato dal punto di vista della sua vera protagonista, Angelica? Vittorio Macioce si cimenta con questa impresa nel suo esordio narrativo, “Dice Angelica”, che contiene numerosi riferimenti alla modernità e alla cultura popolare, unendo un classico della letteratura al tema più dibattuto del momento sui media: il ruolo della donna – Su ilLibraio.it un estratto

Ce l’hanno raccontata a scuola, la vicenda di Angelica, la bella per eccellenza, la donna per cui i paladini di mezzo mondo impazziscono, si sfidano in epiche battaglie, disposti a rischiare la pelle pur di averla. Angelica l’esotica, l’insidiosa, il motore di ogni passione, che attende in silenzio di essere conquistata come un trofeo.

Ma qualcuno si è mai chiesto se era d’accordo? Se a lei Orlando – che sarà pure stato l’eroe della cristianità, d’accordo, ma anche un uomo di rara bruttezza – piaceva? Se quella rissa tra maschi alpha non le sembrasse ridicola? Se desiderasse, magari, qualcos’altro?

Lo ha fatto il caporedattore ed editorialista de il Giornale Vittorio Macioce, tra le altre cose fondatore e il direttore artistico del Festival delle Storie nella valle di Comino, e ora al suo esordio narrativo proprio con Dice Angelica (edito da Salani, nella collana Le Stanze), nel quale si dà voce a questa creatura tanto celebrata quanto misteriosa.

In fin dei conti, la protagonista femminile dell’Orlando Furioso di Ludovico Ariosto (1474-1533) è una ragazza normale, simile a quelle di oggi, con emozioni che attraversano i secoli: il desiderio di sentirsi viva, di trovare un posto nel mondo; la necessità di fare chiarezza sulle proprie origini; il fastidio di essere continuamente oggetto di attenzioni maschili; il dolore di interpretare un ruolo cucitole addosso da altri.

Ricostruendo in chiave contemporanea tutto ciò che la storia della letteratura ha trascurato di Angelica e delle pulsioni che la animano, Macioce ci guida alla riscoperta di una vicenda sorprendentemente densa di riferimenti pop – dai videogiochi allo spaghetti western, dalla musica ai romanzi fantasy – e che non ha mai smesso di dirci qualcosa sulla natura delle ossessioni amorose.

Copertina del libro Dice Angelica

Su ilLibraio.it, per gentile concessione della casa editrice, pubblichiamo un estratto:

Come in un western

Tutto comincia con una canzone. Sto qui alle quattro e quarantotto della notte, o del mattino, all’angolo di una piazza, in un paese che non riconosco. Accanto a me c’è una donna che mi appare ogni momento diversa, invecchia, ringiovanisce, cambia profilo, colore del volto e dei capelli. È un numero pressoché infinito di corpi e di facce che incarna un frammento di lei.

Quella che stiamo ascoltando è la voce di un certo Turoldo. È un cantastorie e racconta la morte di Orlando, conte di Bretagna. Uccidere e sciancare è il suo mestiere. Re Carlo, dopo sette anni di guerra, sta lasciando la Spagna. Il suo esercito attraversa i Pirenei, come una lunga scia di formiche. Orlando, con un pugno di armigeri, è a capo della retroguardia. Proteggono il cammino. Arrivati al passo di Roncisvalle subiscono un’imboscata. Qualcuno ha tradito. Non è difficile immaginare il suo nome. È Gano di Maganza, patrigno di Orlando. È lui che ha avvertito i mori che lì, in quella gola, avrebbero potuto sorprendere il simbolo dei paladini. È lui che convince Carlo Magno a lasciare in retroguardia il pezzo più pregiato della collezione.

Frecce, grida, massi che rotolano e un’orda di infedeli che si riversa sulla strada stretta e lunga che non lascia vie di fuga. Sono circondati, davanti, alle spalle, sopra, ovunque. Orlando potrebbe chiedere aiuto, suonare il suo olifante, che arriva al di là dei monti e delle valli.

Il suo migliore amico, Oliviero, fratello di sua moglie, lo implora: «Soffia, Orlando, soffia».

No, invece no. Non lo fa. Tergiversa, aspetta. Non vuole mettere in pericolo il suo re, suo zio. È da vigliacchi. Il suo dovere è resistere.

Non c’è nessuno su questa terra più forte di lui. Orlando è coraggio, valore, orgoglio. Il suo corpo è di pietra. Basta la sua spada per respingere l’attacco. Durlindana, così si chiama, viene da molto lontano. Era nelle mani di Ettore sotto le mura di Troia. Ha ferito le carni divine di Achille. Ora saetta e colpisce, scardinando rocce e pezzi di cielo. Sarà un’altra sconfitta. Sono tanti, troppi e non si riesce a contarli. Tutt’intorno corpi senza più respiro. Si muore. Si muore da eroi, ma si muore.

Orlando cavalca avanti e indietro, per dare speranza a chi ormai non l’ha più.

‘Soffia, Orlando, soffia’.

Niente. Si ritrova a terra, disarcionato. Guarda negli occhi Brigliadoro, che porta il nome di tutti i suoi cavalli, e riconosce che è finita. Non si alza. È steso a terra. Se ne sta andando anche lui. Il respiro sale, accelera, a cercare vita. Orlando sente, con la mano sul fianco, gli ultimi battiti del cuore. Lo abbraccia, con tutto il corpo, e lo bacia e non smette di piangere.

Ormai sono rimasti in tre. Orlando al centro, con Durlindana stretta al petto, Oliviero a destra e Turpino, chierico e guerriero, arcivescovo di Reims, alla sinistra. Sembrano tre madonne ai piedi del Golgota.

Solo adesso Orlando si decide a soffiare nel corno. Tre squilli che risuonano ovunque ci sia qualcuno in grado di ascoltare. Sta annunciando la sua morte. Cerca la forza per distruggere la lama. Non vuole lasciarla ai nemici. Colpisce e colpisce ancora un masso, fino a sfinirsi. Durlindana resta intatta. Si arrende. Allora corre. Sente la morte che lo afferra. Si rifugia sotto un pino. Appoggia lo spadone e il corno per terra e si distende sull’erba verde. Carlo tornerà indietro per vendicare il nipote. È finita.

Turoldo lascia che il silenzio si diffonda nella piazza. È la canzone di Orlando. Nessuno sa se sia stato davvero lui a comporla. Di certo questa storia non hanno mai smesso di raccontarla, anno dopo anno, secolo dopo secolo, ovunque ci fosse un raduno di genti, nelle corti e nelle fiere, nei palazzi e ai crocicchi delle strade. All’improvviso, all’antrasatta, aggiungendo questo o quel particolare, sbagliando i nomi e gli accenti, mischiando le lingue.

Orlando, l’eroe della cristianità, muore a Roncisvalle. È da qui, da questo sacrificio, che nasce il mondo dove mi sto inoltrando. Roncisvalle è la fine e l’inizio. È il principio della leggenda.

«Cosa c’entro io con tutto questo?» Sono le prime parole che sento da Angelica.

Niente, mi viene da rispondere. Assolutamente  nulla. La canzone di Orlando è l’origine di qualcosa che chiamiamo Europa e Occidente. È la nostra epopea. È la frontiera, con terre ignote sulla mappa, da esplorare, terre meravigliose dove tutto è possibile, dove perdersi e seminare avventure. È il bosco, l’isola e il mare aperto. Noi siamo antichi e questo è il nostro western.

Mezzo busto dello scrittore Vittorio Macioce

Vittorio Macioce

Quando penso a Orlando me lo immagino proprio così, come uno sceriffo del lontano West, con le gambe arcuate alla John Wayne. Potrebbe stare tranquillamente sulla diligenza per Lordsburg. È la scena forse più famosa di Ombre rosse. Sta lì in piedi sul carro, nel bel mezzo della riserva Apache, con quella faccia da barista scontroso quando qualcuno gli ordina un mocaccino. Non si scompone, ma fa roteare per tre volte il Winchester intorno al pollice e all’indice e poi si lascia scappare un sorriso tenero che non c’entra nulla. Ecco, per cinquecento e passa anni Orlando è stato il western. Poi sono arrivati gli americani.

Orlando come John Wayne non ha macchie, non ha tentazioni, non ha paura. È tutto casa e dovere, un paladino che ha giurato fedeltà a Carlo Magno. Niente donne e niente sesso, neppure con la moglie. È l’eroe e basta. Non si svela e non si mette a nudo. Regola numero uno: ‘Parla a bassa voce, parla lentamente, non dire troppo’.

Non si è mai capito davvero perché gli eroi non fanno sesso. Stanno lì stracarichi di mascolinità, ma non si concedono, con quel ritrarsi da spilorcio di chi non sa darsi neppure a pelle, per paura di consumarsi o di moltiplicarsi, per un sentimento difficile da confessare perfino a se stessi: restare unici.

Orlando come John Wayne non ha tempo per l’amore, per le sbandate, per la famiglia, per le amanti e di certo non ha mai pagato per fare l’amore. Non ha fratelli e seppure li avesse sarebbe comunque figlio unico. Nella chanson de geste, quella classica, quella francese, Orlando se incontra Angelica al massimo le bacia la mano.

Quindi, appunto, che c’entra lei? È un dispetto, uno sfregio e un’illuminazione. Bussa e si presenta. Dicono che odori di spezie e la sua pelle mostra i colori della cannella. È seta e malizia. Non è alta e addormenta i gatti solo stringendoli al seno, gli occhi di mandorla, scuri. La bocca ognuno la immagina come vuole. È bionda, probabilmente tinta. Il suo corpo brucia.

È l’invenzione di un italiano, messer Boiardo. Che succede se Orlando si innamora? È uno spaghetti western. È come John Wayne che spara e fa cilecca.

Poi arriva un altro italiano, messer Ariosto, e di quella spaghettata fa un capolavoro. Che succede se Orlando va in bianco? Impazzisce e comincia a picchiare a destra e a manca. Cominci a sentire una campana che risuona e ti chiedi se sia davvero per te, il soffio di un’armonica che si perde nel deserto, l’ululato di un coyote, una voce che ti chiama e dice giù la testa, uno scacciapensieri, un mandolino che fa da contrabbasso, un fischio lontano in un giorno d’estate a cui risponde solo il canto di un uccello. Non è che John Wayne diventi John Holmes, ma l’eroe un po’ va in frantumi, schiattato e ridicolo. Scopri che anche gli angeli mangiano fagioli.

Ecco cosa c’entra Angelica. È tutta colpa sua.

(continua in libreria…)

Fotografia header: GettyEditorial 20-07-2021

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