Emanuele Aldrovandi, regista, drammaturgo, sceneggiatore (per teatro e cinema), è al debutto nel romanzo con “Il nostro grande niente”, una storia di desiderio indicibile. E su ilLibraio.it spiega cosa lo ha spinto a scegliere la scrittura romanzesca per la sua ultima storia, a sperimentare con un nuovo (per lui) mezzo espressivo: “Credo sia importante non dare mai per scontato quello che si crede di aver capito e chiedersi ogni volta ‘e questa storia, adesso, come la racconto?'”

Quando è uscito Il nostro grande niente*, che è il mio primo romanzo, mi è stato chiesto come mai, dopo quasi quindici anni di teatro e dopo le recenti esperienze cinematografiche, io abbia deciso di sperimentare un nuovo mezzo espressivo.

Rispondere a questa domanda mi offre l’occasione per provare a parlare di alcune differenze fra queste modalità di narrazione, ovviamente in modo soggettivo e quindi parziale.

Il teatro che mi piace guardare e che cerco di scrivere è generalmente fondato sull’azione, cioè sul fatto che un personaggio, ogni volta che entra in scena, debba fare qualcosa – a sé stesso, agli altri personaggi, al pubblico – che rompa un equilibrio e produca un cambiamento. Anche piccolo, anche una minima variazione all’interno di un rapporto. In quest’ottica le “parole” che un personaggio pronuncia sono solamente la punta di un iceberg che emerge dal livello del mare. Appena sotto l’acqua c’è l’azione che sta compiendo, poi le motivazioni che lo muovono e tanto altro, in una stratificazione che può essere più o meno complessa e profonda.

Nello Zio Vanja di Cechov, quando Astrov parla di quanto sia importante piantare gli alberi e salvare i boschi, sta certamente dicendo qualcosa in cui crede, ma lo sta facendo in quel preciso momento – e non in un altro – perché la sua azione è quella di sedurre Elena Andreevna. Di solito i personaggi teatrali che funzionano sono scritti così: quando raccontano, quando parlano di sé, quando dicono come stanno, cosa pensano o cosa credono, non lo fanno mai “solo per farlo” o “per comunicarlo allo spettatore”, ma sempre perché stanno compiendo un’azione, attraverso quelle parole. Agiscono il “qui e ora” della loro presenza scenica e la difficoltà maggiore, nello scriverli, consiste proprio nel fatto che appena le parole svelano l’azione, crolla tutto: se Astrov dicesse “Sono attratto da lei, Elena Andreevna, anche se siamo molto diversi, ma forse proprio per questo, nonostante io non condivida nulla del modo in cui lei vive, mi verrebbe una gran voglia di baciarla” la scena, una volta recitata, diventerebbe didascalica e posticcia.

In un romanzo invece un narratore esterno potrebbe tranquillamente raccontare la stessa situazione in questo modo: “Nonostante non condividesse nulla del modo in cui lei viveva, Astrov era molto attratto da Elena Andreevna, ma invece di confessare questa attrazione, le stava parlando dell’importanza di piantare gli alberi e salvaguardare i boschi. Lei lo ascoltava con attenzione e curiosità…” e così via.

Sono riflessioni che condivido quotidianamente con gli studenti dei corsi di scrittura teatrale. A volte si tratta di giovani autori che hanno avuto esperienze narrative e che si accostano per la prima volta alla drammaturgia o alla sceneggiatura: la difficoltà maggiore che hanno è far parlare i personaggi in modo da permettere poi agli attori di avere un’azione da agire, evitando quindi di riempire i dialoghi di descrizioni.

Io ci ho messo tanti anni e tanta pratica per imparare a farlo, ma con questa storia ho sentito per la prima volta l’esigenza opposta: rinunciare parzialmente alle dinamiche sceniche per lasciare spazio al racconto introspettivo.

Il protagonista de Il nostro grande niente è morto e vede la vita della ragazza di cui era innamorato che procede senza di lui. Le “azioni” che lei compie non sono “azioni drammatiche”, ma semplici gesti quotidiani, talvolta privi di conflitto, che però assumono un risvolto doloroso nello sguardo di lui. Per rendere al meglio questa malinconia ho avuto la necessità di intervallare racconti, sensazioni e ricordi, seguendo un flusso emotivo libero che avesse al centro le dinamiche di pensiero del protagonista. Invece di mostrare solo la punta dell’iceberg e lasciar immaginare il resto, volevo prosciugare il mare e andarne a raccontare le profondità in modo esplicito, descrivendone nel dettaglio i risvolti. Per questo il romanzo mi sembrava il mezzo più adatto.

Ma oltre che parziali, sono anche considerazioni provvisorie. Credo sia importante non dare mai per scontato quello che si crede di aver capito e chiedersi ogni volta “e questa storia, adesso, come la racconto?

Emanuele Aldrovandi il nostro grande niente

L’AUTORE  E IL LIBRO –  *Il nostro grande niente, in uscita per Einaudi Stile Libero, è il primo romanzo del regista (per teatro e cinema) Emanuele Aldrovandi. L’autore, classe ’85, nel libro si interroga sulla natura delle relazioni, mettendo in scena “una storia di desiderio indicibile“: in pochi giorni, il protagonista avrebbe sposato la ragazza con gli occhi grandi, se non fosse morto in un incidente stradale. E adesso la vede tornare in quella che era la loro casa, trovare il suo computer sul tavolo e le ciabatte che lei gli aveva regalato in corridoio, dove lui le ha lasciate. La tazza, invece, è sul bordo del lavandino: lei ci infila il naso dentro e scoppia a piangere. Forse è in quel momento (che già riusciamo a immaginare cinematograficamente) che inizia il suo faticoso ritorno alla vita, ed è la voce di lui a raccontarlo…

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