Manlio Castagna e Guido Sgardoli, autori del romanzo per ragazzi (ma non solo) “Le belve”, una storia (i cui diritti cinematografici sono già stati venduti) per gli amanti dell’horror paranormale “alla King”, su ilLibraio.it riflettono su come scrivere un romanzo e una sceneggiatura, mettendo a confronto i due tipi di scrittura. E raccontano il loro libro “atipico, strutturato e concepito esattamente come una sceneggiatura”

Manlio Castagna è tra gli organizzatori del festival del cinema per ragazzi di Giffoni e ne è stato anche vicedirettore artistico. Sceneggiatore, regista, critico cinematografico, fotografo, esperto di comunicazione e semiologia degli audiovisivi, è autore della saga Petrademone. Guido Sgardoli è uno degli scrittori italiani per ragazzi più apprezzati da pubblico e critica. Ha vinto il Premio Strega Ragazze e Ragazzi, tre volte il Premio Andersen, il Premio Cento, il Bancarellino e due volte la selezione White Ravens. E i suoi libri sono tradotti in molti paesi.

Castagna e Sgardoli hanno scritto a quattro mani per Piemme il romanzo per ragazzi (ma non solo) Le belve. Una storia per gli amanti dell’horror paranormale “alla King”. Non a caso, i diritti cinematografici sono già stati venduti. Ecco perché su ilLibraio.it i due co-autori riflettono su come scrivere un romanzo e una sceneggiatura mettendo a confronto i due tipi di scrittura.

Le belve

di Manlio Castagna e Guido Sgardoli

Scrivere romanzi.
Scrivere sceneggiature.
Si tratta sempre e comunque di raccontare storie servendosi delle parole.

Romanzi e sceneggiature sono due mezzi che abbiamo a disposizione per narrare mondi e personaggi, per descrivere stati d’animo ed esprimere le nostre idee sull’esistenza. In poche parole sono vene creative, diverse per forma e funzione, in cui far scorrere la stessa linfa ribollente dello storytelling.

Per cominciare, potremmo dire che la differenza che li divide è la stessa che c’è tra leggere e vedere.

Le sceneggiature, invero, non sono fatte per essere lette, ma per essere viste. Esse non sono vincolate dall’elemento stilistico e non ne necessitano. Certo, ci sono ottimi script che sono “anche” ottime letture. Ma non raggiungeranno mai il pubblico, a meno che non siano trasformati in film, e anche allora verranno assorbiti in un’altra forma.

Pasolini diceva giustamente che la sceneggiatura è una “struttura che tende ad un’altra struttura”. Nessuno ammira una bella persona esclamando: «Ma che bello scheletro!»

Lo script è appunto l’impalcatura ossea dietro il corpo del film.

Dunque risulta evidente come scrivere sceneggiature significhi concentrarsi molto più sulla storia da raccontare piuttosto che sulla qualità della narrazione. Non che una bella prosa sia sconsigliabile, ma lo sceneggiatore non ha alcun bisogno di impressionare chi legge il suo script con un elevato grado di sofisticazione linguistica. Un buco di trama non lo rattoppi con una frase elegante.

In uno script la struttura e la sua forma sono paletti che non possono essere alterati se si vogliono avere possibilità di essere considerati da un produttore. La creatività dello sceneggiatore non è selvaggia, ma deve esplodere in un recinto ben delimitato, dove i dialoghi sono messi al centro, l’azione è descritta senza troppi fronzoli e dove la separazione delle scene è scandita a seconda dello spazio e del tempo rispettando precisi criteri. Questi “dati di fatto”, che per un romanziere possono apparire come la tomba dell’estro e dell’ispirazione, per uno sceneggiatore sono uno strumento necessario a esaminare la meccanica della propria narrazione. Lo schema, più o meno rigido, lo aiuta a focalizzare e affinare la storia per adattarla ai confini produttivi.

Chi scrive romanzi, a meno che non si imponga gabbie in cui rinchiudere la  “bestia scalpitante” delle proprie idee, non ha gli stessi vincoli e le stesse preoccupazioni. Un romanzo ha una maggiore flessibilità. Il novelist è più libero e può cavarsela con monologhi e flashback interiori, che sono assolutamente vietati in una buona sceneggiatura. In un romanzo non è necessario entrare nel secondo atto tra pagina venti e venticinque, avere il punto centrale a pagina 45/50 o il secondo colpo di scena, quello che porta i protagonisti alla maggiore distanza possibile dal raggiungimento del proprio desiderio narrativo, a segnare l’inizio del terzo atto (quello del climax e della risoluzione).

Mentre nelle sceneggiature si deve fare affidamento su elementi visivi e dialoghi per mostrare al pubblico cosa pensa il protagonista, nei romanzi  è possibile scavare a fondo nelle menti dei personaggi, in un percorso quasi introspettivo. Il romanzo ha come punti fermi la vita interiore del protagonista: i sentimenti e le emozioni prendono il posto dell’azione drammatica. È come una sessione di analisi tra il romanziere e i suoi personaggi. I personaggi delle sceneggiature devono essere creati e sviluppati rapidamente, con brevi pennellate. Spesso sono caratterizzati solo dalle loro azioni. Nelle pagine di un romanzo, al contrario, lo scrittore può indugiare, ha più tempo e più spazio per delineare i propri personaggi, può raggiungere livelli profondi, con intriganti retroscena, o seguire il filo dei loro pensieri, delle loro riflessioni, dei loro ricordi. Non che non si possa fare nei film, ma il tempo a disposizione di uno sceneggiatore è molto più limitato e l’attenzione dei suoi “spettatori” molto meno disposta a deviare dai “fatti”.

Il filo della storia va compreso subito, dallo spettatore. Il lettore, invece, spesso trova gusto proprio nel cercarlo e non ha fretta di arrivarci.

Ma per quante differenze i due mondi portino con loro, esiste anche la possibilità che essi si contaminino. Così come gli sceneggiatori possono ispirarsi a grandi romanzieri per migliorare la qualità dei loro script in termini di passo e ritmo, di costruzione della suspense, dello sviluppo dei personaggi e dell’architettura del worldbuilding, così i romanzieri possono apprendere dalle grandi sceneggiature importanti lezioni da applicare alle loro opere: strutturazione della trama, importanza dello show don’t tell (mostrare piuttosto che dire), creazione dell’atmosfera, immedesimazione come arte dell’engagement (cioè dell’aggancio del pubblico).

Le Belve è un romanzo atipico, strutturato e concepito esattamente come una sceneggiatura, rispettando cioè molti dei canoni tipici degli script: ritmo serrato, molti dialoghi e poche descrizioni, dinamiche visive, tre atti, impostazione, colpo di scena I, confronto, colpo di scena II, risoluzione, superamento di conflitti. È un’opera che si pone, non senza una certa ambizione, esattamente al confine tra i due mondi di cui abbiamo parlato, nella speranza che possa soddisfare i palati dei lettori come quelli degli spettatori.

O almeno questo è quanto ci auguriamo.

Buona lettura e buona visione!

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