Damiano Scaramella, all’esordio nel romanzo con “Come in cielo”, ambientato in un paesino siciliano ai piedi dell’Etna, parla del suo rapporto speciale con la città di Catania, dove “l’inaspettato non ha attimi di esitazione. Anzi, ti insegue. Talvolta anche troppo: ti perseguita… Forse per questo è diventata la mia seconda casa”
La vita è una festa, ma sempre di qualcun altro
La prima volta che sono andato a Catania è stato per incontrare una ragazza di cui, poco più che ventenne, mi ero innamorato. Insomma, non ne ero ancora sicuro, e immagino neanche lei. L’avremmo verificato ore dopo. Mentre passeggiavo all’ombra della Pescheria, alle spalle del Duomo, aspettandola docile e nervoso, un gruppetto di bambini mi si è fatto sotto. Il più scavato in volto di loro ha detto – riporto in italiano per comodità: «Lo vuoi vedere il diavolo per un euro?». L’affare mi sembrava tutto sommato buono, così ho accettato. Neanche il tempo di mettere l’euro sul suo palmo che quello mi ha tirato addosso un pesce morto. «Ecco il diavolo, cugghiuni!» ha esclamato baldanzoso. E sono scappati tutti ridendo. Il pesce puzzava d’inferno, in effetti, e aveva occhi enormi, di balena.
Un istante dopo, mentre ancora mi rigiravo incredulo il pesce tra le mani, un uomo con i capelli lunghi e bianchi e gli occhiali da sole a specchio è arrivato arrancando alle mie spalle, mi ha preso il braccio e ha detto: «Giovàne, dove è fermata di maledetto autobùs?» Mi volto. Era Mal, cantante popolarissimo in Italia negli anni Settanta, totalmente smarrito e sudato mentre tentava di raggiungere, saltando da un bus all’altro, la stazione di Villafranca per un concerto.
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Ho amato subito Catania.
Nelle prime ore si è rivelata come vorrei fosse il mondo intero: fuori asse e senza senso.
Qui le cose appaiono e scompaiono, ti ridono in faccia, ti bussano alle spalle.
Dove sono cresciuto io, nella sterminata provincia romana, queste fortune non capitavano tutti i giorni. Capitavano, sì: ma in modo meno generoso. Il fato poteva riservarti un frontale con una vacca finita chissà come in tangenziale; ogni tanto di notte, quando da adolescente io e i miei amici facevamo l’alba correndo vuoti nell’anima e senza meta lungo la Casilina, se eri proprio fortunato qualche cinghiale ti inseguiva nel buio e tu correvi via, allucinato e urlante. E ti sentivi vivo, per qualche minuto.
A Catania, invece, l’inaspettato non ha attimi di esitazione. Anzi, ti insegue.
Talvolta anche troppo: ti perseguita.
Forse per questo è diventata la mia seconda casa. Mi ha regalato (o tirato addosso) molte idee, pensieri, progetti. Mi ha messo nelle condizioni di scrivere molto, e con una libertà che nei miei luoghi non avevo mai provato. Questo fatto, va detto, all’inizio mi confondeva – mi faceva sentire geograficamente asincrono; o molto peggio, un impostore. Poi mi è capitata tra le mani un’intervista del regista romano Emanuele Crialese, i cui primi (miracolosi) film sono tutti ambientati in Sicilia. Recitava più o meno così, a memoria d’elefante: a Roma mi sembrava tutto già visto – scriveva Crialese –, in Sicilia mi sentivo invece come un gatto gettato dentro una casa nuova, spaventato e curioso di tutto.
Mi sono sentito compreso, leggendolo. E ho deciso che avrei preso anche io, almeno in parte, almeno per un po’, il mio domicilio fantasioso lì.
Quella ragazza siciliana che dovevo incontrare poi l’ho sposata. Abbiamo avuto una figlia: si chiama Agata, come la santa di Catania. Le estati degli ultimi dieci anni le abbiamo passate insieme in una grande casa tra i paesi etnei dove era andato a vivere suo padre con una nuova famiglia. Una villa per ricevimenti, per la precisione, molto ambita dagli abitanti dei quartieri popolari della zona, con un giardino curatissimo, una piscina in mattoncini blu, acquari con luci stroboscopiche e pesci rossi che nuotavano in tondo tutto il giorno – la location perfetta per i diciottesimi più aberranti.
Di giorno leggevamo sdraiati sul prato vicino alla piscina, aggrediti da un sole rabbioso e inclemente. Di sera, ammiravamo le feste affacciati da un balconcino. Outfit dagli abbinamenti improbabili, doppi tagli marziani, neomelodici acclamati come pop star. Pensavo a Federico Fellini, mi domandavo che film straordinario avrebbe potuto scrivere lì, quale insuperabile capolavoro.
Poi una sera, uno degli abitanti della Villa – il più taciturno e malinconico, che ogni notte a un certo punto, dopo cena, spariva senza che nessuno lo vedesse più – mi ha chiesto di seguirlo. Girando intorno al giardino della Villa ci siamo ritrovati dietro una siepe, a un passo dagli invitati, ma ben coperti; invisibili. È rimasto lì per quasi due ore, e io un po’ a disagio a qualche passo da lui, a guardare la festa tra le fronde. Aveva gli occhi spalancati e lucidi, la bocca aperta come un pesce. Nelle sue pupille tagliate dai faretti del dj si rifletteva tutto: i balli dei ragazzi, i baci dietro gi alberi, i brindisi, i sussurri, le bestemmie. Scorrevano luminosi come un film. (Ho pensato a Matteo Garrone, devo dire, e a che volto perfetto sarebbe stato quel ragazzo per un suo film.)
Non usciva mai dalla Villa, lui, il taciturno, ma ogni sera tutto il mondo transitava nella grande piazza dei suoi occhi. E lui era contento.
Quella sera è nata la prima idea di Come in cielo, un romanzo che inizia e finisce negli occhi di quel ragazzo, Salvatore. Inizia e finisce con la sua attesa della felicità. Inizia e finisce con la nostra folle delusione di non trovarla mai, davvero, quella felicità, e di scoprirci sempre a vivere, di sfuggita, solo quella degli altri.
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L’AUTORE E IL LIBRO – Damiano Scaramella (1990) è nato a Palestrina e vive a Milano. Negli ultimi dieci anni è stato editor della saggistica italiana del Saggiatore, incarico che poi ha lasciato per dirigere un nuovo marchio.
Autore di varie raccolte di poesie, nel 2013 ha vinto il Premio U29 del PoesiaFestival di Modena e nel 2016 il Premio internazionale Città di Como.
Come in cielo, in libreria per NN, è il suo primo romanzo. La trama porta a Badia, un paesino in Sicilia ai piedi dell’Etna, dove c’è una grande villa bianca che tutti conoscono: è quella di zu Pippo Puglisi, che l’ha costruita in anni di sacrifici. Alla villa si organizzano feste di compleanno, battesimi e cerimonie, l’unica fonte di reddito per i Puglisi. Salvatore è il più grande dei nipoti di zu Pippo, ma è più bambino degli altri: il suo mondo è fatto di visioni, sentimenti e paure che non può spiegare. Una sera, durante una festa alla villa, Salvatore rivede Beverly, l’ex ragazza di Tano, giovane delinquente. Salvatore prova qualcosa per lei da sempre e mentre ballano insieme si fa trascinare da uno dei suoi sogni e perde contatto con la realtà. Cercando di allontanarlo, Beverly cade e muore. Il vecchio zu Pippo prova a tenere nascosto l’accaduto, ma a Badia basta una scintilla per distruggere l’equilibrio delle cose: la notizia si diffonde e Tano con i suoi scagnozzi si scatena contro Salvatore, il “mostro” colpevole dell’omicidio. A porre fine al crescendo di minacce e violenze è Orsu, il boss della zona, crudele come il Dio dell’Antico Testamento, che impone a zu Pippo il più terribile dei sacrifici, per riparare i torti di un mondo arido e ferino, dove l’innocenza è il peggiore dei peccati…