Edoardo Albinati, vincitore del Premio Strega con “La scuola cattolica” nel 2016, torna in libreria con “Velo pietoso. Una stagione di retorica”, un taccuino che tratteggia impietosamente il presente, cogliendo le contraddizioni del mondo della comunicazione, la vacuità di un certo linguaggio odioso e menzognero. Ne emerge una testimonianza del nostro tempo non allineata, non convenzionale e amaramente critica – L’approfondimento

Velo pietoso. Una stagione di retorica (Rizzoli) è una singolare testimonianza del nostro tempo, colta dallo sguardo critico di Edoardo Albinati, già vincitore del Premio Strega nel 2016 con il suo La scuola cattolica (Rizzoli).

Quello che definisce un po’ riduttivamente il suo “pigro e polemico diario” (p. 113) è un taccuino che raccoglie centinaia di appunti da marzo a giugno 2021, apparentemente senza un ordine preciso. È quindi un passato appena trascorso, quello che descrive o racconta Albinati con penna impietosa: un tempo pieno di retorica, un male a cui è difficile, se non impossibile, sottrarsi. Quanto possiamo fare, pare suggerire l’autore nei suoi frammenti, è comprendere le assurdità che si nascondono dietro a “parole abusate, pompate, svendute, svalutate” (p. 27) e provare a riavvicinarci a ciò che ci fa star bene, che siano parole o fatti minori, pubblici o privati.

edoardo albinati velo pietoso

In primo luogo, le parole sono un costante punto di riflessione per Albinati. Talvolta possono essere un ristoro, quasi un amuleto per superare le brutture del presente:

“Nell’atmosfera sorda e rarefatta di questi mesi lascio che risuonino mentalmente quindi pronuncio sottovoce parole semplici, ordinarie, come se costituissero un patrimonio, un piccolo tesoro verbale in cui tutti, volendo, possono ficcare le mani; e mi illudo che ciascuna funga da talismano” (p. 35).

Si presentano alla memoria o si lasciano incontrare sulle pagine dei libri, mostrandosi in tutta la loro nuda bellezza semantica e fonetica. Non di rado, nel taccuino Albinati è colto da un vero e proprio “godimento onomastico sia per chi inventa i nomi sia per chi li legge” (p. 61): è facile che questo avvenga quando si rincontrano le creazioni dantesche, ma non solo; a volte sono i nomi propri di persona a suscitare riflessioni o anche solo sensazioni piacevoli con i loro suoni. Talora subentrano riflessioni su neologismi ironici, appropriati, fantasiosi o fini a se stessi, o parole appartenenti a un passato guardato con nostalgia. Fanno da contraltare espressioni correnti da cancellare, perché abusate, usate impropriamente o semplicemente odiose ad Albinati (da “assolutamente sì” a “resilienza”, fino a “smatworking” o “comfort zone”).

La lingua è specchio del presente, nonché elemento con cui lo scrittore deve sempre misurarsi, e non meraviglia che Albinati faccia riferimento alla doppia natura delle parole con una metafora bellica: “La sola cosa con cui di sicuro combatte ogni giorno da scrittore è la lingua: la sua arma tagliente e il suo temibile avversario” (p. 74). Tuttavia, la lingua può avere un valore svelante, in controtendenza con le mistificazioni del mondo della comunicazione: mostra ciò che si nasconde dietro quel velo pietoso che vorremmo stendere sulle cose (“Mentre con le parole stendiamo un velo pietoso sulle cose, in realtà lo stiamo lacerando”, p. 97).

Anche le parole degli altri, di grandi scrittori e artisti del passato, si affacciano nel diario: talvolta si tratta di semplici citazioni, di cui dobbiamo cogliere autonomamente il valore; altrove Albinati ripropone passi del passato che sembrano ugualmente descrivere il nostro presente (frequenti i riferimenti a Franz Kafka e al Karl Marx de Il 18 brumaio). La posizione che occupano nel taccuino non è mai casuale, e basterà leggere i frammenti precedenti e i successivi per accorgersi di come le citazioni si facciano spesso chiave di interpretazione di quanto scritto, o ponte per passare a un altro argomento.

Oltre a lanciare strali contro parole ed espressioni usate con pressappochismo e senza pensare davvero, sono le piccole e grandi contraddizioni del mondo della comunicazione ad attirare le critiche più acuminate di Albinati. L’autore non teme di fare nomi e cognomi, si riferisce a momenti di trasmissioni o a singoli personaggi pubblici, bandendo il tanto modaiolo politicamente corretto. Vengono additati giornalisti che, anziché intervistare, forniscono risposte; politici che si trincerano dietro a discorsi vuoti, sorretti solo dalla retorica; presentatori che insistono a esaltare se stessi,… “Ah, questa smania di voler intervenire su tutto, di trarre spettacolo da tutto”, commenta Albinati a p. 66, ma avrebbe potuto ripeterlo anche altrove, perché questo pensiero si abbinerebbe perfettamente a molti dei suoi frammenti.

La sciatteria preoccupa lo scrittore, ma soprattutto l’uomo: se nell’ambito editoriale se ne trovano segni inequivocabili, nella vita quotidiana questa tendenza rischia di trasformarsi in dramma. Molte delle vicende di cronaca riportate in frammenti più lunghi (possono riempire fino a cinque pagine) sono il terribile risultato di una scrollata di spalle e di una rinuncia alla propria responsabilità. Da assurdi e drammatici casi di malasanità all’aumento dei numeri di femminicidio in Italia, dalle riflessioni su quanto sta accadendo in questo periodo di emergenza a esempi di trascuratezza urbana: sono questi i testi più sofferti, testimonianza che “per vomitare il proprio tempo occorre prima averlo divorato” (p. 136), secondo un pensiero che sembra rifarsi a grandi aforisti e diaristi del Novecento (e non a caso nel taccuino Albinati cita Flaiano).

L’autore non si sottrae mai a ciò che vede, anche se il presente rischia di imprigionarlo in una gabbia di retorica e di rumore (“il ‘nostro’ tempo mi rincorre e riacciuffa”, p. 120), da cui ci si può liberare temporaneamente con le rare uscite non-retoriche, che “bisogna succhiare come bolle di ossigeno mentre si sta annegando (frase un bel po’ retorica anche questa, ahimè)” (p. 71).

È in questa sapiente giustapposizione fra frammenti che denunciano il presente e altri che permettono di godere della lingua e di “doparsi di fatterelli” (p. 133) che Albinati costruisce una testimonianza non allineata né convenzionale, che sa farsi a volte taccuino dello scrittore, altrove taccuino di un cittadino amaramente critico nei confronti del Paese, tanto quanto del suo quartiere e della sua stessa vita.

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