“Di fatto ogni mio libro sarà un libro diverso per ciascun lettore, perché ognuno porterà in ciò che legge le sue esperienze particolari”. ilLibraio.it ha incontrato Elizabeth Strout (Premio Pulitzer per la narrativa con “Olive Kitteridge”), in Italia per presentare “Tutto è possibile”, la sua sesta opera. La scrittrice americana, parlando del suo rapporto con la scrittura, ci racconta della necessità di capire le sofferenze degli uomini e ci spiega le sue scelte stilistiche…

Tutto è possibile, sesto romanzo di Elizabeth Strout è sicuramente una delle novità editoriali più attese dell’autunno: seconda uscita dell’autrice americana con Einaudi (traduzione di Susanna Basso), segue le vicende di quei personaggi secondari che popolavano i ricordi della narratrice e protagonista del precedente Mi chiamo Lucy Barton. Se infatti il memoir di Lucy evocava i ricordi della sua infanzia trascorsa ad Amgash, nell’Illinois rurale, Tutto è possibile trasporta il lettore direttamente nella vita di provincia dei suoi abitanti.
Una raccolta di racconti, più che un romanzo corale, in cui ancora una volta Strout si dedica alle giornate ordinarie di persone comuni e prova a spiare la loro vita interiore per carpirne i segreti. Elizabeth Strout ha sempre abituato i lettori a una scrittura taumaturgica, a un’analisi simpatetica dei suoi personaggi, ricercando quei sommovimenti interiori che ciascuno, anche fuori dalla letteratura, nasconde al mondo, e come sempre non delude. Con Tutto è possibile Strout racconta le ferite della generazione che ha vissuto la guerra del Vietnam e quelle dei loro figli, lasciando sempre trasparire una grande fiducia nel genere umano e una grande apertura nei confronti dell’altro. La possibilità espressa nel titolo, uguale anche in lingua originale, è infatti quella dei piccoli stati di grazia che i suoi personaggi, nonostante le sofferenze e i traumi irrisolti, riescono ad avere. Quelle piccole connessioni tra le persone a cui, in fondo, ogni essere umano è predisposto.
Abbiamo intervistato l’autrice in occasione del Festivaletteratura di Mantova.

Tutto è possibile di Elizabeth Strout
Dai suoi romanzi si percepisce un forte legame tra l’individualità dei personaggi e la società che li circonda. Sembra, insomma, che le aspettative sociali portino molti suoi personaggi a indossare una maschera: una situazione che non fa che amplificare quei dolori privati che nascono da vicende ritenute vergognose.
“Credo che, nella vita, la maggior parte delle persone indossi una maschera. C’è sempre una sorta di spazio tra il modo in cui ci comportiamo nel mondo e i sentimenti che abbiamo a proposito di questo stesso mondo, la nostra vita interiore insomma. È questo che mi interessa come scrittrice: mi metto sempre a curiosare nell’interiorità dei miei personaggi per vedere come si relazionano con lo spazio esterno in base alle loro emozioni. Quello che mi tocca veramente è la loro sofferenza, perché in generale sono sempre interessata alle modalità con cui le persone riescono a sopravvivere alle proprie ferite e alle proprie sfortune”.

La società americana che traspare dalle vicende raccontate in Tutto è possibile è estremamente puritana e si fonda sul “non detto”: i non detti sulla propria situazione famigliare, ad esempio, o i non detti sui traumi della guerra del Vietnam. Sembra sia questo l’elemento che scatena le peggiori sofferenze dei suoi personaggi.
“Sì, esatto, ci sono moltissimi non detti. E in ogni caso si tratta proprio di una parte della cultura americana, o meglio, della cultura puritana americana, e questa situazione chiaramente non fa che amplificare le sofferenze delle persone”.

La famiglia riveste sempre un ruolo molto importante nelle vicende che racconta, ma raramente leggiamo storie di famiglie felici: l’accento è più spesso posto su nuclei famigliari disfunzionali. Citando Tolstoj, concorda con la frase: “Tutte le famiglie felici si assomigliano fra loro, ogni famiglia infelice è infelice a suo modo”?
“Ricordo di averlo letto [Anna Karenina, N.d.A.] molti anni fa e aver pensato: ‘Certo, probabilmente è vero’. E lo penso ancora, e penso anche che scrivere di famiglie felici, molto semplicemente, non sia interessante: non è interessante per il lettore e non è interessante per me, quindi non ho intenzione di farlo. E poi ci sono abbastanza situazioni famigliari complicate tra cui scegliere!”

Eppure in Tutto è possibile ci sono due personaggi che sembrano salvarsi, nonostante provengano dal medesimo contesto disfunzionale di Lucy Barton: i cugini Abel e Dottie. Hanno passato l’infanzia nella miseria e Dottie da adulta ha vissuto anche un divorzio, tuttavia sembrano essere riusciti entrambi a conquistarsi una vita abbastanza serena e realizzata.
“Dottie è un personaggio che ho trovato subito intrigante. Mi è venuta in mente abbastanza velocemente e mi è sembrato di capirla, di pensare: ‘Mi piace questa donna, sono dalla sua parte’. È un personaggio interessante perché è silenziosa, ma sa molte cose, le ha capite osservando le persone nel suo lavoro [Dottie gestisce un bed & breakfast, N.d.A.] e nella sua vita privata. È silenziosa ma allo stesso tempo è empatica, per esempio con qualcuno come Charlie McCauley: lo comprende perché in fondo anche lei in passato ha avuto i suoi problemi. E poi c’è Abel. Credo che Abel sia semplicemente nato con una buona natura, con una gentilezza innata. È un brav’uomo che è riuscito a trovare la sua strada”.

La serenità dei suoi personaggi sembra dipendere principalmente, oltre che dal vissuto famigliare, da come guardano al mondo, dalla loro psicologia. In un suo testo pubblicato su La Lettura dice che scrivere aiuta a vedere il mondo attraverso occhi diversi: com’è immergersi in una psicologia diversa dalla propria? È possibile abbandonarsi completamente al personaggio o resta sempre, anche solo in minima parte, il filtro della realtà così come la percepisce l’autore?
“Quando scrivo non deve mai rimanere il mio punto di vista, tuttavia deve esserci una piccolissima parte di me in ogni personaggio: è il modo per riuscire a entrare nella loro esperienza personale. Questo però non significa che io abbia il loro stesso punto di vista sulle cose. Quando mi sembra di essere ‘dentro’ i personaggi, provo a comprenderli, e si tratta di un processo lungo, basato sulle sensazioni. Finché mi rendo conto che quello che sto scrivendo è giusto per un determinato personaggio, allora va bene. Bisogna mettersi nei panni di qualcun altro e pensare: ‘Ok, questa persona farebbe così’, oppure: ‘No, questa non lo farebbe’, o ancora: ‘Potrebbe fare questa cosa anche se non sembra del tutto nelle sue corde, e allora sarà sorprendente’”.

Patty [un altro personaggio di Tutto è possibile, N.d.A.] leggendo il memoir di Lucy Barton si sente finalmente compresa: è anche a questo che servono le storie? A scoprire che l’interiorità delle persone, spesso, è molto simile?
“Mi piace pensare che sia così. Con i miei romanzi vorrei aiutare i lettori a capire che qualsiasi cosa stiano pensando o provando non devono vergognarsene, perché anche altre persone potrebbero provare le stesse cose se si trovassero in una situazione simile. E rendersene conto è confortante”.

Nei suoi romanzi si percepisce anche la riflessione sulle differenze di classe, in Mi chiamo Lucy Barton vediamo il percorso della protagonista da un’esistenza misera nella campagna dell’Illinois alla vita culturale newyorkese, e in Tutto è possibile le differenze tra i vari personaggi sono fortemente segnate dal loro posizionamento sociale e dalla capacità che hanno avuto di affrontare la povertà e l’ignoranza.
“Sono felice che si noti, perché effettivamente le differenze di classe mi interessano molto. Gli americani non hanno parlato di questo aspetto della società per davvero diverso tempo e stanno cominciando a farlo soltanto ora, principalmente a causa dell’attuale situazione politica. Ma per anni non si è parlato di classi sociali e questa è una caratteristica della nostra società. Ecco perché, praticamente in tutti i miei romanzi, mi sono occupata delle differenze di classe e di cosa significhi provenire dalla classe operaia”.

I temi affrontati nei suoi romanzi sono tendenzialmente molto complessi. È dunque interessante il contrasto con il linguaggio che li veicola; un linguaggio sempre scorrevole, che aiuta il lettore a veleggiare di pagina in pagina come se si trovasse davanti un testo molto più lieve. Si tratta di una scelta dettata da una precisa volontà stilistica e comunicativa?
“Nel corso degli anni ho sempre cercato di lavorare a frasi che fossero pulite. Credo che una frase chiara e pulita aiuti molto ad andare avanti nella lettura, quindi mi sono esercitata a pensare a espressioni che fossero vere e allo stesso tempo suonassero bene. Penso che un romanzo dipenda dalle singole frasi che lo compongono e dunque ogni parola è importante, e anche il modo in cui ogni frase suona. Solo così il lettore può entrare davvero nella storia e portare con sé le sue esperienze personali: deve avere lo spazio per farlo. Di fatto ogni mio libro sarà un libro diverso per ciascun lettore, perché ognuno porterà in ciò che legge le sue esperienze particolari. E se io sono ridondante, verbosa, allora non potranno davvero farlo; se invece riesco a costruire frasi pulite, che siano evocative ma allo stesso tempo semplici, allora il lettore riuscirà a trovare lo spazio necessario per inserire anche il proprio vissuto”.

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