“Lascio scrivere del passato a chi compete, però, quel 2 luglio è successo qualcosa di più di una piccola storia privata. Bodinaku non ha solamente sfondato il muro dell’ambasciata tedesca, ha sfondato il tallone d’achille di una delle dittature più repressive al mondo”. Su ilLibraio.it lo scrittore Elivs Malaj racconta il suo romanzo “Il mare è rotondo”: “La storia albanese è fatta di queste piccole storie, i suoi eroi hanno una dimensione molto umana”

Un eroe dei nostri tempi

Nel 1990 Ylli Bodinaku è poco più che trentenne, ha un lavoro sottopagato, una moglie, un figlio di undici anni più uno appena nato. Tutto sommato, la sua è una vita relativamente comune per quegli anni. Nel profondo, però, Bodinaku coltiva il sogno di andare a lavorare in Germania; è appassionato di macchine, e soprattutto vuole garantire alla sua famiglia un futuro migliore. Però, appunto, è solo un sogno. Le possibilità che possa concretizzarsi sono praticamente pari a zero. In realtà Bodinaku un’idea su come realizzare il suo sogno ce l’ha – un’idea concepita già nell’87, mentre era in prigione.

Era il 2 luglio 1990, una delle estati più calde di quel fine secolo; stanco di aspettare, Bodinaku decide di mettere in pratica la sua idea. Torna a casa, indossa gli abiti migliori che ha, carica la moglie e i figli sul camion con cui lavora e parte. Verso le 19,40 il camion si schianta contro il muro di recinzione dell’ambasciata tedesca. Il muro collassa e il veicolo finisce dentro il territorio dell’ambasciata che, in base al diritto internazionale, è suolo tedesco. Bodinaku e la sua famiglia, tutti in buona salute, scendono dal camion e realizzano, almeno tecnicamente, il suo sogno.

Il ministro degli esteri tedesco di allora, Hans Dietrich Genscher, definisce Bodinaku un eroe dei nostri tempi.

Sono venuto a conoscenza di questa storia per caso, in uno dei miei ultimi viaggi in Albania e, ovviamente, ho subito sentito che ne avrei scritto. È stato amore a prima vista. Per me nel gesto di Bodinaku c’è tutta la letteratura del mondo; è un gesto pieno di umanità, di vita, di… Insomma, non nascondo l’orgasmo letterario che ho provato e che provo quando lo racconto.

Però c’è dell’altro, qualcosa che qui ho ommesso e che cambia completamente il senso di questa storia; ossia, il contesto in cui è inserita.

Per quanto si possa dire che quello di Bodinaku sia stato un gesto disperato, folle, naif, donchisciottesco e via dicendo, nella concatenazione degli eventi ha rappresentato un piccolo ma cruciale momento nella caduta di uno dei regimi totalitari più longevi e repressivi del Novecento.

Facciamo un passo indietro; stiamo parlando dell’Albania comunista, un periodo durato quasi cinquanta anni. Una costante dei regimi totalitari è la paranoia, e di solito questa paranoia appartiene a un uomo solo, ma finisce per plasmare tutto lo Stato. Solo che in Enver Hoxha la paranoia si spingeva a tal punto che l’Albania non solo si è isolata dal suo presunto nemico naturale, cioè l’Occidente con il suo capitalismo, la borghesia eccetera, ma ha apertamente dichiarato la Jugoslavia, il Blocco sovietico e perfino la Cina suoi nemici.

Hoxha era particolarmente fissato con un copione, quello dell’amico che lo tradisce e si tramuta in nemico. Ed era un dramma che recitava non solo nella politica estera, ma anche in quella interna e addirittura nella vita privata. Era convinto che tutti volessero pugnalarlo alle spalle. Oltre ai presunti rivali, Hoxha fa fuori i suoi collaboratori più stretti, i fondatori del partito comunista albanese e i compagni con cui ha fatto la rivoluzione. La condanna a morte o al confino dei vari leader all’interno del partito è prassi consolidata. Ma lui va a colpire anche coloro che l’avevano aiutato prima della rivoluzione, prestandogli soldi o dandogli un tetto, anche loro vengono condannati a morte. Singolare è il fato che nel ’44 Hoxha fa fucilare tutti i suoi ex compagni di liceo.

In poche parole, se eri un amico di Enver Hoxha, o in qualche modo vicino a lui, era praticamente sicuro che a un certo punto – nella sua mente malata – ti avrebbe visto come nemico ed eliminato.

Il risultato di tutto questo è che l’Albania diventa il paese più isolato del globo: armata fino ai denti, in rapporti ostili con tutti gli stati vicini, con una bunkerizzazione massiccia del territorio, una politica interna delle più repressive dell’era comunista, una economia vicina al collasso e in attesa esasperante di una guerra che non arriva mai.

Il popolo albanese giunge alla fine degli anni Ottanta stremato e annichilito, prigioniero della visione delirante di un uomo malato. Perfino la morte del dittatore non comporta la fine del regime ma, anzi; con la sua scomparsa, Hoxha compie l’ascesa in cielo alla destra di Karl Marx, il passaggio da uomo a Dio, diventando quindi eterno.

Per un albanese che anelasse la libertà, non aveva altra scelta che lasciare il paese. Solo che oltrepassare il confine era pressoché impossibile, e se ci riuscivi segnavi la condanna per tutti quelli che lasciavi dietro.

Mentre nel resto del mondo si assiste a un graduale decadimento del comunismo, culminante nella caduta del muro di Berlino, il Partito del lavoro albanese marcia trionfante verso il coronamento dei propri ideali. C’è solo un piccolo e anomalo fatto che per un attimo manda in paranoia la nomenclatura.

Il 12 dicembre dell’85, mentre nella capitale si sta svolgendo un’imponente parata in onore del leader scomparso pochi mesi prima, approfittando della confusione generale i fratelli Popa si presentano all’ambasciata italiana. Sono vestiti in modo strano e ridono in continuazione, e all’agente della Sigurimi dicono di essere turisti napoletani ospiti dell’ambasciata. Stordito dalle loro chiacchiere, l’agente li lascia passare. Appena i Popa (due fratelli e quattro sorelle) superano l’ingresso – ormai l’avete capito sono di fatto entrati territorio italiano –, l’agente della Sigurimi ritorna in sé e si rende conto di cosa è successo. Li minaccia con un revolver per farli uscire, ma troppo tardi. A quel punto interviene un carabiniere. I Popa hanno con sé sei dosi di veleno che sono pronti a ingerirlo nel caso li buttino fuori. Chiedono asilo politico. L’ambasciatore italiano li accoglie.

Questa è una novità assoluta per il regime, che subito fa circondare l’ambasciata da ottocento poliziotti, convoca un’urgentissima riunione del Comitato centrale, avvia una serie delirante di trattative diplomatiche con l’Italia eccetera eccetera. Alla fine tutto si conclude in un nulla fatto, il governo sa che ha il destino dei sei fratelli in mano e ovviamente non gli concede il permesso per lasciare il paese. I Popa vivono per cinque anni all’interno dell’ambasciata. Poi, improvvisamente, il 17 maggio del 1990, l’Italia, con l’aiuto Onu e in modo rocambolesco, riesce finalmente a farli salire su un aereo per Roma.

Questa storia segna profondamente la consapevolezza degli albanesi; da un momento all’altro tutti sentono che la via per l’Occidente è più vicino di quanto pensavano: sta a due passi, lì, nel cuore di Tirana, oltre il cancello delle ambasciate. Piccole isole di libertà dove il regime non aveva alcun potere. Bisogna solo trovare il modo di entrare, oltrepassare quei cancelli di ferro massiccio e quei muri alti.

Nei giorni seguenti, nonostante gli organi d’informazione del regime fanno di tutto per insabbiarla, la notizia si diffonde e persone di ogni parte del paese, per lo più giovani, puntano la capitale. Nessuno sa esattamente cosa fare o cosa sta per succedere, ma vogliono essere lì quando succederà. Cominciano a girare notizie vaghe ma piene di speranza: quindici persone erano state accolte dall’ambasciata greca; un imprecisato numero di altre da quella turca; qualcuno aveva sfondato il cancello dell’ambasciata italiana. L’aria si carica di tensione, è palpabile, e il 2 luglio esplode.

Ritornando a quel giorno, il gesto di Bodinaku in realtà non era poi così naif, donchisciottesco o folle: era semplicemente l’unico gesto possibile. Quando Bodinaku torna a casa e dice alla moglie di salire tutti sul camion, anche il piccolo di due mesi, che andranno a schiantarsi contro il muro dell’ambasciata, lei non gli risponde che è pazzo, obbedisce. Caricano a bordo le poche cose di valore che hanno – qualche bottiglia di raki, un agnello e un magnetofono – e partono. Il camion nel frattempo si riempie di altre persone: sale il collega con cui hanno ideato il progetto, salgono amici, parenti e anche gente sconosciuta incrociata lungo la strada. «Dove andate?» «In Germania». «Veniamo anche noi».

In quei giorni ogni piazza e ogni strada di Tirana è sorvegliata da poliziotti e agenti della Sigurimi, qualsiasi individuo sospetto viene fermato e interrogato. Quando vedono il camion stracolmo di persone, intimano l’alt, e alla risposta di Bodinaku «Andiamo in Germania» la scena è talmente surreale che i poliziotti lo lasciano andare.

Il camion non fa altre fermate, Bodinaku guida come un forsennato, per un gesto simile serve esserlo, sa che si sta giocando il tutto per tutto.

Alle 19,40 il muro dell’ambasciata tedesca viene sfondato, mattoni e vetri vengono proiettati in ogni direzione. Al momento dell’impatto, sul camion ci sono quaranta persone e una bestia – tutti sopravvissuti. Da quell’istante in poi la situazione sfugge al controllo delle forze dell’ordine. A Tirana le ambasciate di mezzo mondo vengono prese d’assalto. Il gruppo di grande si riversa proprio in quella tedesca che da lì a poco sarà gremita da una folla di tremila persone.

Quella sera, in maniera del tutto spontanea, succede un altro fatto cruciale. In quei giorni in Italia si giocano i mondiali di calcio che in Albania vengono seguiti di nascosto sui canali della Rai. Il Tg Uno di mezzanotte trasmette una telefonata proveniente da Tirana. La voce di un uomo dice: «Sta succedendo una rivolta contro il regime. Circa mille persone sono entrate nell’ambasciata tedesca. I servizi segreti hanno aperto fuoco, ci sono una decina di morti. Non posso più parlare al telefono perché ho paura che mi scoprano», e mette giù. Il massaggio viene recepito in tutto il paese. Anzi, in quel momento lo sa tutto il mondo, la notizia è stata trasmessa dalla Rai. Il fatto che lo sappiano in tantissimi la rende ancora più vera: è in atto una rivolta contro il regime.

Il giorno dopo la situazione è ancora più caotica: nuove ondate di persone puntano la capitale, le ambasciate straripano di gente, ci sono continui scontri tra polizia e manifestanti. La mancanza di mezzi di difesa contro le cariche dei poliziotti e la mancanza di organizzazione saranno determinanti. Le forze dell’ordine riescono sempre a disperdere la folla, e per chi improvvisa comizi ci sono i cecchini. L’unico momento di comunione è rappresentato dalle partite dei mondiali, dove tutti sono sintonizzati.

La sera del 4 luglio la Germania gioca la semifinale contro l’Inghilterra. Gli albanesi, ovviamente, tifano Germania, la cui ambasciata più di ogni altra si è spesa per accogliere e difendere i richiedenti asilo (e dove intanto il nostro Bodinaku sta ricevendo cure mediche per le ferite dovute all’impatto, in una stanza interna senza finestre, fuori dal tiro dei cecchini). Nelle case, nei bar, nei parchi, per strada le persone hanno sintonizzato i vecchi tubi catodici e le radio sulle frequenze della Rai per seguire la partita. La Germania vince ai rigori. Ed è quanto basta per innescare la sommossa; migliaia di persone scendono di nuovo in strada urlando slogan contro il regime; dai balconi e dalle finestre la gente si unisce ai cori. La polizia che non può più fare niente per disperderli.

L’8 luglio, quando la Germania vince i mondiali, Tirana è una bolgia.

Nel tentativo di risolvere la crisi, il governo concede il permesso di lasciare il paese ai richiedenti asilo. È l’ultima mossa, però, prima ha provato a costringere le persone a uscire dalle ambasciate in tutti i modi più subdoli: ha tagliato l’acqua corrente – tremila persone ammassate in poche centinaia di metri quadri, senza acqua, in un caldo torrido, per giorni e giorni –, ha infiltrato tra i rifugiati agenti della Sigurimi e criminali incalliti per creare agitazione, ha minacciato di attivare l’esercito eccetera. Il cruccio del governo era come sbarazzarsene al più presto possibile di quella gente. Così, nella notte tra il 12 e il 13 luglio le ambasciate si svuotano. Tre navi italiane e una francese partono dal porto di Durazzo con a bordo più di cinquemila persone. Un esodo mai visto fino allora.

Il regime resiste ancora qualche mese, ma la storia ormai ha intrapreso il suo corso. Il 20 febbraio 1991, con l’abbattimento dell’enorme statua in bronzo di Hoxha, in piazza Scanderbeg, cade definitivamente la dittatura.

Ovviamente lascio scrivere del passato a chi compete – qui ometto molte altre tappe cruciali del processo –, però, quel 2 luglio è successo qualcosa di più di una piccola storia privata. Bodinaku non ha solamente sfondato il muro dell’ambasciata tedesca, ha sfondato il tallone d’achille di una delle dittature più repressive al mondo. Di certo non aveva intenti rivoluzionari o l’aspirazione di rovesciare la dittatura, solo che la storia l’ha catapultato in qualcosa di più grosso; improvvisamente Bodinaku non era più solo Bodinaku, era cinquemila persone, era tutto il paese. La storia albanese è fatta di queste piccole storie, i suoi eroi hanno una dimensione molto umana.

Nel mio libro, in realtà, non parlo di Bodinaku, e neanche del 2 luglio. Però è da qui che ha avuto origine. E non lo dico come punto di merito; cioè, uno scrittore per riuscire a rovinare una storia del genere si deve proprio mettere d’impegno.

Elvis Malaj Il mare è rotondo

L’AUTORE E IL LIBRO – Elvis Malaj è nato in Albania nel 1990. A quindici anni si è trasferito ad Alessandria con la famiglia e oggi vive a Belluno. Ha esordito con la raccolta di racconti Dal tuo terrazzo si vede casa mia, selezionato al Premio Strega 2018.

Con Il mare è rotondo (Rizzoli), questo suo primo romanzo ci trascina in un gioco letterario spassoso e raffinato. Il protagonista è Ujkan, che sogna di arrivare in Italia e che provò a raggiungerla per la prima volta a undici anni, mescolandosi ai profughi kosovari. Tra depistaggi, giri a vuoto e false partenze, Malaj si diverte a stupire i lettori e li accompagna, con la sua voce originalissima, verso l’inatteso, scoppiettante finale.

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