Sarebbe riduttivo definire il perturbante e avvincente esordio di Toby Lloyd come una saga famigliare o come una storia di fantasmi: “Fervore” ci dimostra che, in fin dei conti, tra i due generi non c’è molta differenza. E, come solo i migliori libri sanno fare, pone molte domande e dà pochissime risposte…

È l’ultima estate del Novecento quando Yosef Rosenthal, ebreo nato a Varsavia e sopravvissuto al campo di sterminio di Treblinka, muore nella polverosa mansarda di una grande villa nel nord di Londra. Il dolore che ha segnato la sua esistenza, alimentato da uno straziante senso di colpa, non si estingue con la sua scomparsa, ma si riverbera sulla vita dei figli e dei figli dei suoi figli come una biblica “fiamma oscura”.

Fervore di Toby Lloyd

Sarebbe riduttivo definire il perturbante e avvincente esordio di Toby Lloyd come una saga famigliare o come una storia di fantasmi: Fervore (Neri Pozza, traduzione di Silvia Albesano) ci dimostra che, in fin dei conti, tra i due generi non c’è molta differenza.

Tutti i membri della famiglia Rosenthal devono fare i conti con il fantasma di Yosef: Eric, il figlio, un avvocato dal carattere mite e profondamente religioso, cresciuto nel perpetuo orrore dei racconti paterni; Hannah, la nuora, una giornalista altrettanto osservante e radicale, che scrive su giornali di estrema destra e ha pubblicato un libro controverso sulle memorie del suocero a Treblinka; i tre nipoti – Gideon, Elsie e Tovyah – che si ribellano, ognuno alla sua maniera, all’ambiente in cui sono cresciuti, fatto della più rigorosa ortodossia (“Niente era solo una metafora; se lasci una sedia vuota per il profeta Elia è perché il profeta Elia potrebbe fare capolino”) e del suo esatto contrario: un’ambizione mondana a cui tutto sembra essere sacrificabile, persino la famiglia.

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Dopo la perdita del nonno, la quattordicenne Elsie, “figlia perfetta” e nipote prediletta, comincia a manifestare violente fantasie di morte e comportamenti antisociali, finché un pomeriggio scompare nel nulla. Quando riappare, quattro giorni dopo, non è più la stessa.

Si immerge nella lettura della mistica ebraica, beve e poi smette di mangiare, dà fuoco alle bibbie dei genitori, parla con misteriose presenze nel buio, decapita galline in giardino, fa la spola tra la mansarda del nonno e gli ospedali psichiatrici. La madre non ci mette molto a convincersi che la figlia sia posseduta, anzi: è lo stesso Dio a comunicarle che si serve di rituali cabalistici per evocare gli spiriti dei morti. Ma cos’è successo davvero a Elsie?

Secondo Tovyah, il fratello minore, è tutta colpa dei Rosenthal, di quella famiglia disfunzionale da cui non vedeva l’ora di emanciparsi.

Dopo i primi due capitoli ambientati nel 1999, il romanzo si sposta a Oxford nel 2008, dove Tovyah – ateo convinto che ha trovato nello studio della letteratura la sua forma di ribellione all’ottusità della fede – si è rifugiato appena ha potuto. Cresciuto con due principali frustrazioni, le ragazze e Dio (“e il problema era l’inesistenza delle une e dell’altro”), è diventato un ragazzo polemico, scontroso, e allo stesso tempo dotato di un certo fascino intellettuale da cui non sarà immune Kate, la vicina di stanza che ha appena scoperto la sua discendenza ebraica e sta compiendo un percorso per avvicinarsi alle sue origini.

È proprio la voce di Kate a narrare in prima persona buona parte del romanzo, ed è attraverso il suo sguardo ammaliato e curioso che tentiamo di avvicinarci al mistero dei Rosenthal, e in particolare di Elsie. Perché, nonostante Tovyah sia il protagonista del libro, è la sorella il personaggio di maggiore impatto, nonché il motore della narrazione – è attorno a lei che ruotano gli eventi, destinati a precipitare quando la madre pubblicherà un secondo libro-verità incentrato sulla possessione demoniaca della figlia.

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Come solo i migliori romanzi sanno fare, Fervore pone molte domande e dà pochissime risposte, e questo potrebbe generare in qualche lettore un po’ di frustrazione. Ma a ben vedere, ha davvero importanza sapere se i fantasmi che abitano Elsie siano quelli dell’inferno o quelli dell’inconscio? Se sia davvero posseduta dai demoni o se si tratti solo di un’adolescente alle prese con il lutto, che avverte in sé “emozioni fortissime, forze interiori abbastanza intense da abbattere città intere”? Conta se Elsie praticava la negromanzia e fabbricava golem o se leggeva lo Zohar soltanto per sentirsi libera, perché quell’antica sapienza la autorizzava a rispondere solo a sé stessa e a Dio?

L’unica certezza è che la religione è il linguaggio che ha scelto per esprimere il suo dolore – un dolore antico, profondamente umano – e viene da pensare che l’abbia scelta per le stesse ragioni che spingono Tovyah a urlare l’impronunciabile nome di Dio alla cena di famiglia: è l’unico linguaggio con cui i genitori abbiano mai comunicato con i figli. “Per Hannah, l’inimmaginabile cambiamento di Elsie doveva avere una dimensione spirituale. Un significato. Se qualcosa stava accadendo a sua figlia e non a quella di qualcun altro, era perché Dio voleva così”.

Sia Elsie che Tovyah portano in sé l’irrimarginabile ferita dell’assenza del padre e della madre: Eric e Hannah sono incapaci di vedere i propri figli se non attraverso le lenti dell’ambizione personale e della fede (solo il fratello maggiore – arruolato, non a caso, nell’esercito israeliano a Tel Aviv – è in grado di giustificarli).

Quando Kate indica a Tovyah una via d’uscita dalla relazione insana coi genitori, quando gli dimostra che in fin dei conti potrebbe essere libero dall’eterna sfida ingaggiata con Dio e attraverso Dio col padre e la madre, libero dalla rabbia e dall’infelicità – lui sceglie ancora una volta la famiglia. Per allontanare certi demoni non basta la forza di volontà.

Sono molti e importanti i temi che s’intrecciano in Fervore: gli interrogativi religiosi, la “possessione” famigliare, ma anche e soprattutto la persistenza del passato e l’importanza della memoria – perché nella storia dei Rosenthal si incarna la grande storia e la storia di un popolo in particolare, in tutta la sua tragicità. Come scrive la stessa Hannah, “le atrocità storiche, come la grande arte, servono a ricordarci le più elementari verità umane”. Senza perdere la sua forza narrativa, Lloyd si interroga su come sia possibile raccontare il passato, sul valore della testimonianza e del silenzio, sulla portata universale e personale del trauma, ma anche – attraverso la figura della madre – su questioni etiche che riguardano il diritto di appropriazione delle storie altrui. Lo fa scegliendo una strategia narrativa di sicuro ambiziosa, a tratti disordinata, che alterna punti di vista differenti e include estratti dai libri di Hannah e racconti di vicende bibliche dalla particolare valenza simbolica.

Nonostante il passaggio dalla narrazione onnisciente alla prima persona non sia sempre convincente, l’inaffidabilità della voce narrante (“In questa casa non ci sono narratori affidabili”, ammicca lo scrittore) si dimostra una scelta stilistica efficace nella sua capacità di accrescere quel senso d’inquietudine che, di pagina in pagina, rapisce chi legge e lo coinvolge in profondità. E anche se certi misteri non trovano soluzione, non è un caso che il libro si chiuda citando il nome di Dio preferito da Elsie: Ein sof, che significa “inconoscibile”. Forse, come diceva il nonno, il mistero è troppo grande e troppo vicino perché noi possiamo comprenderlo.

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Fotografia header: Toby Lloyd, credit Suzie Powell

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