Tratto dall’omonimo romanzo di Marguerite Duras, “La douleur” di Emmanuel Finkiel racconta la storia di una donna che aspetta che il marito torni dai campi di sterminio della Seconda Guerra Mondiale. Il film, però, non si limita a ricostruire la tortura dell’attesa, ma descrive anche come, nell’abisso della Storia, l’amore finisce per smarrirsi, il ritorno da certi luoghi neri dell’uomo pare impraticabile, la deportazione dell’anima alla quale ci costringe l’orrore non ha redenzione, capace com’è di esporci al dolore, senza garantirci tuttavia che il peggio, anche il peggio che ci abita, possa accadere di nuovo… – La recensione

In tempi di connessione costante e rete, notifiche istantanee e geolocalizzazione, il dramma dell’attesa senza fine di Marguerite, raccontato in La douleur di Emanuel Finkiel (tratto dal romanzo autobiografico omonimo della Duras), sembra quasi incredibile e inverosimile, confinato in una dimensione storica, per quanto psicologica e quasi metafisica, apparentemente irripetibile.

Chiusa sola nella penombra della sua stanza, fra speranza disperata e mimesi del lutto, senso di colpa per i suoi moti interiori ambivalenti e falsi campanelli d’allarme, attendendo il ritorno del marito (in qualche misura comunque impossibile) dai campi di sterminio della Seconda Guerra Mondiale, l’attesa della donna sembra appartenere a un altro mondo, uno spazio anacronistico e distopico (un’intuizione potente del recente La donna dello scrittore, film per alcuni aspetti cugino di questo, che localizza in un luogo dell’immaginario analogo il racconto di un futuro che somiglia al passato), eppure ci parla nel profondo della tragedia novecentesca, con la forza attuale della testimonianza, il valore universale della letteratura, il senso necessario di monito.

E tuttavia senza retorica. Perché quel dolore rivela anche gli aspetti narcisistici, assolutistici e autoassolutori, che le ferite profonde possono far emergere. Per cui la solidarietà – della protagonista e, transitivamente, dello spettatore – non è mai disgiunta dal fastidio, e l’altro risulta quasi annichilito dallo specchio contro il quale ci spinge la sua essenza spettrale.

La guerra è agli sgoccioli nella Parigi occupata, e la donna si attacca alla radio, alle voci di amici e conoscenti, alle telefonate, ai resoconti monchi e alle voci che si diffondono e si dissolvono. Posseduta dal fantasma dell’attesa – una sigaretta che trattiene la sua colonna di cenere costantemente fra le labbra, la penna che prova a salvare traccia e incanalare lo strazio del vuoto producendo un rito e un disegno di senso – la scrittrice si lascia gradualmente coinvolgere in un’ambigua frequentazione quotidiana con un collaborazionista, nemico dal volto amico, dai modi garbati e sfuggenti, seducenti e crudeli, che pare terribilmente affascinato dal mondo intellettuale di lei, mosso da velleità letterarie e perversamente attratto dalla sofferenza di quella donna che fuma e non mangia.

le douleur film

L’uomo lascia trapelare scampoli di notizie e balenare trattamenti di favore per il marito prigioniero/deportato in cambio di notizie su persone, piani e nascondigli della Resistenza, rispetto alla quale la donna pur proclama totale estraneità, anche se appare fatalmente attirata dalle maglie seduttrici di una possibile via di salvezza, vendetta o fuga. Il bello della narrazione sta nel conservare uno spaesante livello di sospensione in questo rapporto, che rispecchia una disposizione non risolta della protagonista, ché il vero nemico, i veri roghi, non sono quelli della Germania, ma quelli interiori.

Ma il non luogo dell’attesa, una capitale disorientante e desertificata, ovattata e ostile nella sua indifferenza, a tratti completamente svuotata, a tratti affollata di risate moleste e moti minacciosi, si estende labirintica e crudelmente elegante attorno agli scuri che delimitano una casa perennemente in penombra, sfocata, asfittica, chiusa e desolata, e al volto di una donna (l’ex modella Mélanie Thierry in una interpretazione densa), preso fra le mani e avvolto nel sonno agitato, imbambolato di fronte a una fiamma accesa, duplicato dagli specchi, imprigionato da finestre e porte.

Marguerite vive la sua prigionia in libertà interrogandosi in continuazione su dove davvero lei (più che lui) si trovi, e su come mettere fine a questa condizione soffocante e lacerante, in cui “non provo più dolore, non esisto più”. Dell’ambivalenza dell’attesa, amore e repulsione verso il proprio oggetto mancante, desiderio e paura del ricongiungimento/risurrezione, senso di onnipotenza e senso di colpa di chi comunque è sopravvissuto, rende ben conto Marguerite Duras, mettendo a nudo le contraddizioni profonde dell’anima di fronte alle prove assolute della Storia.

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A partire da una ferita personale profonda e per certi versi rimossa, il racconto della scrittrice (del 1985), come il film, dichiarano di prendere le mosse da un diario in cui la voce narrante fatica a riconoscersi, una scrittura regolare e un disordine del pensiero e del sentimento “davanti alla quale – afferma l’autrice – mi vergogno della letteratura“. E di questa vergogna, oltre che di quella “attesa ancestrale delle donne degli uomini che tornano dalla guerra”, racconta questa storia, che non si limita a ricostruire la tortura dell’attesa, ma descrive anche come, nell’abisso della Storia, l’amore finisce per smarrirsi, il ritorno da certi luoghi neri dell’uomo pare impraticabile, la deportazione dell’anima alla quale ci costringe l’orrore come esperienza limite non ha redenzione, capace com’è di esporci al dolore, al suo trasfigurante e inevitabile potere di fine e di rinascita, alla dimensione del non ritorno e dell’irripetibile, senza garantirci tuttavia che il peggio, anche il peggio che ci abita, possa accadere di nuovo.

L’AUTORE: sulla pagina autore tutte le recensioni e gli articoli di Matteo Columbo per ilLibraio.it

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