Nato a Zagabria, il “Museo delle Relazioni Finite” apre anche a Los Angeles. Può far star meglio esporre la fine del proprio amore, attraverso oggetti che hanno un forte significato simbolico? Se lo chiede su ilLibraio.it la scrittrice Greta Simeone: “Fare del proprio dolore uno strumento utile agli altri. Che poi significa dargli un senso. Non è quello che desideriamo più di ogni cosa, quando soffriamo?”

«Ma. Sono. Matti?» è quello che ho pensato, leggendo che il Museo delle Relazioni Finite, nato a Zagabria nel 2010, dall’idea di due ex fidanzati, Drazen Grubisic e Olinka Vistica, ha aperto i battenti anche a Los Angeles (qui il reportage del New York Times, ndr), per iniziativa di un visitatore, l’avvocato John B. Quinn, in Croazia per le vacanze. «Non ne bastava già uno?»

L’esibizione raccoglie oggetti che, per i donatori, hanno un forte significato simbolico, riguardo alla conclusione della loro relazione sentimentale, più un breve racconto di chi, come, cosa e perché, scritto nella propria lingua, così che non si perda alcuna sfumatura – le donazioni arrivano da ovunque – e tradotto dal personale del museo. C’è un tubetto di dentifricio strizzato, perché, se si convive, se ne usa uno in due; c’è la camicetta bluette che si indossava quando si è state mollate per un’altra; c’è la spazzola che si utilizzava per il cane che era di entrambi.

È un invito alla catarsi: per suturare le ferite occorre mettere un punto fermo; in questo caso caricare l’intero peso emotivo su qualcosa di materiale, descrivere (forse) per l’ultima volta quanto accaduto ed emanciparsi, pubblicamente, così che l’enorme esercito di anime ferite che è in giro per il mondo, nel caso dovesse passare da Zagabria o da Los Angeles, potrà verificare ancora una volta, che no, soffrire per amore non è un’esclusiva, né incontrare e amare il tuo carnefice, colui che – per una di quelle inesplicabili dinamiche umane – un giorno ti porta in palmo di mano e il giorno dopo ti butta via come un cencio scolorito. Fare del proprio dolore uno strumento utile agli altri. Che poi significa dargli un senso. Non è quello che desideriamo più di ogni cosa, quando soffriamo? Dare un senso al nostro dolore?

Ecco. Ragionando con calma su quella che mi pareva, a caldo, un’aberrazione – congelare per sempre la propria disfatta, sotto lo sguardo di migliaia di estranei, una specie di voyerismo del cuore – ho capito che comunque lo facciamo tutti, nel nostro piccolo, anche se nessuno paga il biglietto per vederlo.

Magari buttiamo ciò che, per motivi solo a noi noti, ci ricorda la nostra storia, oppure – al contrario – lo raccogliamo in una scatola e ce lo togliamo dalla vista, perché non siamo capaci di liberarcene definitivamente, neppure sotto minaccia armata. Solitamente raccontiamo a chi voglia ascoltarci le nostre pene, perché cerchiamo rassicurazione: cosa non ho capito? Cosa non ho fatto? Sbaglio sempre io? Sono così poco amabile? È lui/lei la bestia, vero? VERO? (dimmi di sì.)

Però le nostre cicatrici siamo noi e non c’è modo di nasconderle, perché ci plasmano, ci danno una nuova forma, ci rendono diversi da ciò che eravamo prima. E sono, siamo, sempre in vetrina.

C’è una scena divertente, in Arma Letale 3, in cui Mel Gibson e Rene Russo si mostrano vicendevolmente i segni lasciati da qualche pallottola o da qualche scazzottata. È il momento che precede la reciproca dichiarazione, quello in cui i due si riconoscono come fatti della stessa materia. Si tratta della Danza del Sopravvissuto, che chiunque di noi – a meno che non sia anaffettivo o sociopatico o incredibilmente fortunato, ben più di Gastone Paperone, non a caso il personaggio più irritante di Paperopoli – ha ballato almeno una volta.

Sarei curiosa di chiedere a ciascuno dei donatori se è stato utile, regalare la propria storia al Museo delle Relazioni Finite; se si sono sentiti più leggeri o se si pentono mai di aver dato via quel maledetto tubetto di dentifricio strizzato. Chiedere ai visitatori se si sono sentiti davvero consolati.

Mentre scrivevo mi sono chiesta cosa dovrei donare io, al Museo, per chiudere quest’ultima storia. Le email (almeno un migliaio) le ho cancellate, lo stesso vale per i messaggi su Whatsapp. Ho conservato solo qualche foto, rinchiusa in una chiavetta, a sua volta rinchiusa in una scatola, sotto una serie di documenti, e che maneggio come fosse un serpente a sonagli. Ma, alla fine, le due rappresentazioni perfette sarebbero il suo silenzio, le mie domande. E nessuna delle due ha una forma.

Ci sarebbe dunque una teca vuota, con il mio nome, ma sono quasi certa che ogni visitatore capirebbe cosa contiene, perché ne hanno una anche loro, con quel che non potranno mai tradurre in parole o immagini. Ne hanno una anche loro, uguale e diversa, da qualche parte.

nota: la foto è stata scattata da Brad Torchia per il The New York Times

IL LIBRO – A Gina sta andando tutto storto: sola da un po’, ora ha anche perso il lavoro. Fa colloqui a ripetizione, per paura di dover rinunciare alla propria casa e tornare a vivere dai suoi, che sono freddi come l’inverno, anche se ormai si è convinta che non l’assumerà nessuno. Troppa la concorrenza, con la crisi che c’è, e lei non brilla in niente. Una sera però arriva, a sorpresa, una telefonata. A chiamarla è Paolo, socio in una catena di sexy shop, che cerca una venditrice a domicilio, e che l’aveva intervistata poche ore prima. Lei era certa di aver fatto una pessima figura, ma secondo Paolo ha le carte in regola per riuscire. Però … però dovrà rifarsi il look, acquisire le giuste competenze, seguire tutte le sue indicazioni, affidarsi a lui senza remore: è disponibile? Gina accetta con riluttanza l’unica proposta ricevuta. Presto, inaspettatamente, le si aprirà un mondo nuovo: sotto la guida di Paolo imparerà molto su se stessa e sulle sue capacità. Troverà l’amore, perderà le sue inibizioni. Fino a quando ogni sua certezza sarà spazzata via da una terribile scoperta.

L’AUTRICE – L’autrice di Sarò come mi vuoi  usa uno pseudonimo. Il suo sito è gretasimeonebooks.wix.com/gretasimeone


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