“Fotogrammi di un film horror perduto” è la raccolta di racconti d’esordio della giovane scozzese Helen McClory: 40 testi, alcuni molto brevi, in cui realtà e fantasia si mischiano, creando nuovi colori, uno più scuro dell’altro – L’approfondimento

Fotogrammi di un film horror perduto (On the Edges of Vision, traduzione di Stefania Perosini) è la raccolta di racconti d’esordio della giovane scozzese Helen McClory, uscita nel 2015 e ora pubblicata in Italia da Il Saggiatore. La raccolta, tra l’altro, ha permesso all’autrice di vincere il Saltire Prize per il miglior esordio.

Quaranta racconti, alcuni brevi, altri brevissimi, in cui realtà e fantasia si mischiano, creando nuovi colori, uno più scuro dell’altro.

Il titolo della raccolta è quello di uno dei testi, e basterebbe per dare un’idea dell’opera, certamente diversa da ciò che siamo soliti trovare in libreria.

Fotogrammi: i racconti di Helen McClory sono brevi, fugaci, i personaggi compiono spesso un unico movimento durante la narrazione, per poi andarsene da dove sono venuti. Sembrano usciti da un film horror perduto, una di quelle pellicole abbandonate nel gabbiotto di un vecchio cinema, da cui escono e terrorizzano tutti.

I personaggi presenti sono tantissimi e impossibili da classificare, se non per la loro caratteristica di essere memorabili, stretti nelle parole del racconto come gli uccellini in gabbia racchiusi in copertina.

Abbiamo il vampiro che sviene alla vista del sangue, non appena ha commesso il suo primo assassinio; una donna che affetta la mano del suo compagno e la serve come aperitivo ai suoi ospiti, fingendo sia prosciutto. C’è il ciclope dall’occhio verde e dalle zanne d’elefante, che può vedere il passato, il presente e il futuro, perché semplicemente c’è sempre stato e sempre sarà: Helen McClory prende la realtà e la porta davanti a uno specchio deformante, che ne gonfia e arrozzisce i contorni, e di questo riflesso scrive. 

Queste deformazioni, che a noi paiono grottesche – i racconti sono spesso ricchi di crudità e crudeltà, come se fossero scritti seguendo la palette del nero e del rosso -, risultano perfettamente naturali per gli altri personaggi che McClory descrive. La ragazza con cui il ciclope beve, ad esempio, non è scioccata o stranita dalla forma del suo compagno di bevute; il piccolo Cambion è sereno quando guarda i suoi genitori che dormono a letto, ma anche i suoi altri genitori, che ogni notte lo vegliano dalla finestra di camera sua con le ali spiegate; ancora, le due anziane, Ruth e Mina, vivono sulla loro isoletta e non fanno troppo caso al mostro liscio, bianco e gommoso, con gambe, braccia e un grosso grugno che vive con loro. 

L’atmosfera è un po’ creepy, un po’ dark, un po’ horror. È fatta di contrasti continui, tra personaggi che compiono del male e altri che non battono ciglio anche quando sono vittime. La brevità, poi, rende ancora di più la potenza di ogni racconto e la sua capacità di risucchiarci in un vortice nero, e di risputarci fuori alla stessa velocità. Margaret Atwood li ha descritti come “tante piccole caramelle alla liquirizia, brillanti e oscuri”. Con uno stile conciso e pungente e le ambientazioni orrorifiche e mostruose, Helen McClory può essere accostata al lavoro di Angela Carter e Shirley Jackson.

In tutta la raccolta si alternano il fantastico e il reale, la luce e il buio, la vita e la morte; che si tratti di raccontare di ragazze morte o vive, di madri o figli, di diavoli o incubi, ogni racconto ci mostra la stessa verità: il mostro è umano, è vicino a noi e non ci metterebbe nulla a catturarci, anche se noi stessi non gli tendessimo la mano.

Se dire cose nuove è impossibile, sperimentare e trovare nuove formule è difficile, ma ogni tanto qualcuno ci riesce.

Fotografia header: Helen McClory, credit Douglas Dunbar

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