“I libri non sono medaglie da appuntarsi alla divisa del buon lettore”. Partendo da un episodio personale, la scrittrice e traduttrice Roberta Marasco invita a smettere di giudicare le letture altrui: “Serve una critica letteraria serena, che non scenda sul piano personale e non ceda al gusto della battutina facile, dello sberleffo, del giudizio in odore di snobismo” – Il suo intervento su ilLibraio.it

Qualche tempo fa ho portato mio figlio dall’optometrista per un controllo. Al termine della visita, dietro un minaccioso paio di occhiali giganti, l’optometrista l’ha guardato con aria severa e gli ha detto che da quel giorno in avanti, se voleva evitare di rovinarsi la vista e la schiena, doveva leggere solo seduto a tavola, con la schiena ben dritta, meglio se con un leggio e sempre dopo aver controllato che la pagina fosse ad almeno due spanne dal naso. E qui se non altro gli ha strappato una risata mettendosi due palmi davanti al naso, in una sorta di sberleffo involontario.

Io apprezzavo molto gli sforzi dell’optometrista per insegnare le buone abitudini a mio figlio, ma le ho fatto notare con un sorriso complice (così speravo) che avrei fatto prima a dirgli di smettere di leggere del tutto. Lei non ha ricambiato il sorriso. Cortese ma ferma, ha insistito: i libri andavano letti seduti a tavola, con un leggio. Una posizione corretta durante la lettura era fondamentale per evitare problemi futuri.

Mentre uscivamo ho detto due cose a mio figlio. Che poteva continuare a leggere svaccato sul divano come faceva sempre. E che l’optometrista secondo me non toccava un romanzo da anni. Poi ho aggiunto che dovevamo sbrigarci per arrivare dal fisioterapista perché avevo un mal di schiena cane.

Mio figlio nel frattempo ha continuato a leggere. E ad andare in biblioteca. Ho la fortuna di vivere nel paesino della costa spagnola con la biblioteca più bella del mondo. È semplice e piccolina, ma ha due grandi finestre che danno sul mare, le pareti decorate in modo sempre nuovo, tre bibliotecarie che ti accolgono con il sorriso e nessun leggio in vista. Non a caso è il posto più frequentato del paese ed è sempre pieno di bambini. L’altro giorno mentre entravamo mio figlio e un amico si sono lanciati sulla sezione fumetti e l’amico ha estratto raggiante un fumetto di SpongeBob, mostrandolo alla madre.

«No, quello no» ha esclamato subito lei. «Prendi un libro vero, per favore.»

Il bambino un po’ deluso ha messo giù il fumetto e mezz’ora dopo è uscito dalla biblioteca a mani vuote. Mentre uscivamo ho detto due cose a mio figlio. Che poteva leggere quello che gli pareva. E che la mamma del suo amico secondo me non toccava un romanzo da anni. Poi ho aggiunto che SpongeBob se lo sarebbe letto da solo perché a me faceva schifo (a tutto c’è un limite…).

Ma se fin qui immagino che saremo tutti d’accordo, se è evidente che non c’è miglior modo per allontanare un bambino dalla lettura dicendogli come, dove e che cosa deve leggere, siamo sicuri che il discorso cambi poi tanto quando si tratta di adulti? Non è forse vero che a essere bacchettati a destra e a sinistra su quello che dovremmo leggere (“La letteratura rosa è per donnette”, “Non leggerai mica Volo?”, “Solo classici”, “Meglio se sono morti”) e su come dovremmo leggerlo (“Io solo cartacei consegnati a mano direttamente dallo stampatore in confezione ermetica perché non perdano l’aroma”) si finisce per sentirsi un po’ come i bambini inchiodati a tavola con la schiena dritta e un leggio davanti a due palmi dalla pagina?

Quanti gruppi di lettori nati sui social e quanti critici non si comportano poi in modo tanto diverso dall’optometrista di paese e dalla mamma dell’amico di mio figlio, intromettendosi, dando giudizi, imponendo regole, rovinando la magia e il piacere di quel momento così personale e unico che è la lettura? C’è qualcosa di troppo intimo nel rapporto con le storie e i libri per potersi permettere di giudicarlo. Nessuno saprà mai che cosa succede nella testa di un altro lettore ed è quella magia, il piccolo miracolo che ci trascina dentro la storia, tutti per vie diverse, ciascuno perso in un mondo completamente distinto nonostante le parole siano identiche, che rende non solo sbagliato, ma assurdo, ogni tentativo di intromettersi.

I libri non sono medaglie da appuntarsi alla divisa del buon lettore. Il motivo per cui le campagne per fomentare la lettura spesso non funzionano è che danno troppa importanza ai libri. Fra tutti quei paroloni (“La lettura rende liberi”, “Leggo per ritrovare me stesso”, “I libri ti insegnano a sognare”) vien quasi da pensare che sia una cosa da fare giusto un paio di volte nella vita. Quelle campagne in realtà parlano ai lettori, assomigliano piuttosto a tante pacche sulle spalle compiaciute, e si lasciano dietro la sensazione un po’ sgradevole di celare l’invito a unirsi a un club esclusivo di menti privilegiate, quando in realtà la distanza fra lettori e non lettori è solo quella fra la mano e il primo libro a disposizione. E invece troppo spesso sembra celare l’abisso incolmabile fra chi legge nel modo giusto e chi legge nel modo sbagliato, fra il divano e il leggio.

Gli unici alberi davvero sprecati, secondo me, sono quelli usati per i libri che vanno al macero, per le migliaia di libri che ogni mese imboccano la strada del ritorno dalle librerie di tutt’Italia, diventando quella cosa dolorosissima per noi autori che prende il nome di “resi”. Tutti gli altri, tutti quelli che sono finiti fra le mani e sulle librerie di qualcuno, a un certo punto hanno incontrato o incontreranno un lettore e magari, come i campanellini che fanno spuntare le ali agli angeli, ne avranno creato un altro.

Allora smettiamola di giudicare e di sbeffeggiare. Quando critichiamo facciamolo senza livore, senza scherno, senza provocazione, con la volontà di spiegare, tutt’al più, non di punire, ma di indicare una strada. Oggi più che mai, sommersi dalle tifoserie e dalle ripicche e dagli elogi sperticati ed equivoci delle recensioni on line, serve una critica letteraria serena, che non scenda sul piano personale e non ceda al gusto della battutina facile, dello sberleffo, del giudizio in odore di snobismo. Dovremmo imparare a parlare di libri con il sorriso, a rendere la lettura un momento di festa. Altrimenti, se continuiamo a distribuire bacchettate sulle mani e frecciatine, poi non lamentiamoci se i lettori preferiscono cercare emozioni altrove, dove non sono tenuti a superare labirinti di regole e divieti.

Quando a mia figlia fecero notare che il libro che aveva davanti era per bambini più piccoli, lei rispose: “A me piace leggere, punto. A me piace leggere tutto”. La lettura è uno stile di vita, non è una dote o una capacità. E di certo non è una prova da superare. E come qualunque stile di vita, ciascuno ha il suo e nessuno dovrebbe sentirsi in diritto di giudicarlo.

IL LIBRO E L’AUTRICE – Le regole del tè e dell’amore (in libreria per Tre60) è l’ultimo libro di Roberta Marasco. L’amore di Elisa per il tè risale alla sua infanzia. È stata sua madre a insegnarle tutte le regole per preparare questa bevanda e ad associare, come per gioco, ogni persona a una varietà di tè. Daniele, il suo unico grande amore, è tornato dopo tanto tempo. Ma Elisa ha imparato da sua madre a non fidarsi della felicità, a non lasciarsi andare mai, perché il prezzo da pagare potrebbe essere molto alto. Prima di tutto dovrà trovare se stessa, poi potrà capire se Daniele può renderla felice. Quando trova per caso una vecchia scatola di tè con un’etichetta che riporta la scritta ROCCAMORI, il nome di un antico borgo umbro, Elisa ne è certa: si tratta del tè proibito della madre, quello che le fece provare solo una volta e che, lei lo sente, nasconde più di un segreto. Forse proprio lì, in quel borgo antico, Elisa potrà trovare le risposte che cerca e imparare a lasciarsi andare e a fidarsi dell’amore, guidata dall’aroma e dalle regole del tè…