Dopo l’esordio con “Una volta è abbastanza”, Giulia Ciarapica torna con “Chi dà luce rischia il buio”. Protagonista del romanzo è l’epica marchigiana dei calzolai, fra gli anni Sessanta e Settanta, divenuti nel frattempo imprenditori, da artigiani che erano. Le scarpe sono il cuore della narrazione, e hanno strettamente a che fare col tema, o col sottogenere, scelto dall’autrice, quello che forse in onore di Thomas Mann viene definito nella critica come “Familieroman”…

Il celebre incipit di Anna Karenina può essere qui tranquillamente rovesciato: per Giulia Ciarapica, al secondo romanzo con Chi dà luce rischia il buio (Rizzoli), non vale tanto il principio che ogni famiglia infelice lo è a modo suo, semmai quello, enunciato dalla  voce narrante, che “ogni famiglia è preda di se stessa”, e nello stesso tempo è in cerca di una felicità possibile, di una manutenzione.

Per questo, “riparare famiglie è come riparare scarpe: l’occhio che le osserva riconoscerà sempre ciò che al primo colpo non è venuto bene. Lo cercherà fra mille altre famiglie, fra milioni di altre scarpe, e lo troverà ogni volta”.

Le scarpe sono il cuore della narrazione, e hanno strettamente a che fare col tema, o col sottogenere, scelto dalla scrittrice marchigiana, quello che forse in onore di Thomas Mann viene definito nella critica come Familieroman; negli ultimi anni sembra godere di una fortuna assai più diffusa rispetto al secolo scorso, dove pure abbiamo avuto esempi importanti, uno per tutti Natalia Ginzburg, da Lessico famigliare a, poniamo, Caro Michele.

Giulia Ciarapica, Chi dà luce rischia il buio 

A questo ed altre consimili opere sembra guardare Giulia Ciarapica, e non all’attuale panorama piuttosto indifferenziato della “saghe” famigliari, con i picchi di successo commerciale e il diffuso rumore di fondo in gara con le serie televisive.

Ci ripropone sì, seguendoli nella loro vita adulta, i personaggi principali di Una volta è abbastanza, fortunato esordio del 2019, ma intanto aggiusta il tiro, dal punto di vista stilistico e delle grammatica narrativa. Si prosegue infatti, fra gli anni Sessanta e Settanta, nell’epica marchigiana dei calzolai, divenuti nel frattempo imprenditori da artigiani che erano quando lavoravano indefessamente “per sopravvivere”; ma spostando in qualche modo la voce narrante.

Ora come allora  il nucleo essenziale, ciò che tiene e teneva insieme il lavoro e i commerci, è sempre la famiglia, allargatasi dal laboratorio casalingo alla fabbrica fino a comprendere una collettività di lavoro più complessa; ma il modo di viverla è sempre lo stesso, con le sue luci e le sue ombre. Se prima si saliva su lunghi treni notturni con una sacco pieno di scarpe per incontrare i grossisti a Bologna, ora si parte magari in auto pur senza conoscere una parola di tedesco o di inglese, direzione Germania a mostrare il campionario.

Sono episodi questi (un po’ alla commedia all’italiana) che ci vengono raccontati con un sottile divertimento, pagine pervase da un umorismo gentile che fanno da contrappunto a frequenti incursioni nel fantastico e nel gotico. A Casette d’Ete, il paese dove vivono e lavorano i protagonisti, può accadere di tutto, persino che per strada compaiano fantasmi, o che una donna sfortunata e sventurata, Rita, cui i maneggi del parroco hanno tolto il primo e unico amore, nel momento in cui muore di cancro faccia chiamare il sacerdote e gli dica con un filo di voce: “Tu verrai con me”.  Pochi minuti e spira, mentre il prete fa altrettanto, colpito da un infarto. Pare un po’ troppo melò? Nei ringraziamenti, Giulia Ciarapica puntualizza, sembrerebbe con un sorriso: “Se la sua morte e quella di don Raffaele vi è sembrata un colpo di teatro, be’, sappiate che non lo è. I fatti sono questi, io li ho solo riportati”.

C’è infatti nel libro un gioco sapiente di storie vere e di creazione fantastica. Casette d’Ete esiste, i personaggi principali – non solo Rita – sono realmente esistiti, come i nonni dell’autrice, o una zia, Annetta, che lei non ha mai conosciuto ma sente per quel che ne sa particolarmente vicina; e in cui rivede qualcosa di sé. Il mondo delle scarpe è a sua volta una rocciosa realtà che Ciarapica conosce bene e ci fa scoprire negli aspetti tecnici e diremmo sentimentali, altri personaggi sono invece frutto di invenzione o di costruzione su profili “veri” mescolati alla bisogna. I rapporti tra di loro sono quelli che pur ovattati dalla provincia segnano amicizie e lotte feroci, in una comunità che pure mantiene una cultura profonda, condivisa e indiscussa, e in ultima analisi supera e condiziona l’io individuale. Assorbe gli urti esterni filtrandoli e facendoli un poco calare di intensità: come accade per il ’68, l’autunno caldo, la strage “nera” di Piazza Fontana a Milano, il terrorismo “rosso”. E’ protettiva e opprimente, una madre mediterranea, ambigua, desiderabile, temibile. Chi dà luce rischia anche il buio: aprire gli occhi ali altri può costare caro.

Quello di Giulia Ciarapica non è ottimismo celebrativo di maniera, alla ricerca comunque sia del lieto fine, ma scavo anche storico e credibilmente realistico, pur nella scelta di partiture a volte fantastiche. Ottimismo problematico. Resta da osservare come, appunto rispetto alla prima prova, il secondo romanzo abbia in qualche modo trovato il modo di appagare una certa ambizione di dire “tutto”, scegliendo una narrazione per brevi capitoli non necessariamente commessi, ampliando i dettagli di certe scene, tagliando su altre, conferendo alla pur notevole mole narrativa un ritmo adeguato, né troppo veloce né troppo insistito.

In definitiva, questo Familienroman arrivato alla sua seconda tappa conferma di non essere una banale “saga” come tante altre, ragion per cui ci liberemo del termine che potrebbe generare equivoci; fa semmai far pensare a un ciclo musivo, costruito con la tecnica e si direbbe il piacere di un artista antico. Oppure, va da sé, da un calzolaio artigiano innamorato del proprio mestiere.

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