Silvia Dai Pra’ torna in libreria con il romanzo “I giudizi sospesi”, e in una riflessione per ilLibraio.it si chiede: “Possiamo parlare di homme fatal, ossia la versione maschile dell’irresistibile manipolatrice che entra nella vita degli altri per condurli alla rovina?”. Nel suo percorso di lettura cita numerosi libri, autori, film e personaggi della letteratura di ieri e di oggi, da “Ritratto di signora” a “L’amica geniale”, passando per Henry James e “Frozen”

di Silvia Dai Pra’

Uno degli stereotipi più duri a morire è che anche i cattivi abbiano un cuore. Non è vero.

Di solito hanno un trauma, vero o finto, quel che conta è che si presti a essere tirato fuori al momento opportuno: genitori inaffidabili, lutti, gatti morti, in nome dei quali gli altri perdoneranno i loro misfatti, prima di ricordarsi che quei traumi li hanno subiti in tanti.

Avrete notato che fatico a trovare un nome per questi individui: “il cattivo” suona infantile, mentre con “narcisista maligno”, “manipolatore tossico”, “vampiro emotivo” mi sento subito trasportata all’interno di un gruppo di auto-aiuto.

Fare i conti con una tradizione culturale che è stata per millenni quasi solo maschile significa anche questo, del resto: che tutti noi riconosciamo immediatamente un termine come femme fatal, nonostante le donne siano state letteralmente fatali per gli uomini in una manciata di casi, mentre non abbiamo una parola corrispondente per definire quel tipo di amante-marito-compagno-fidanzato-ex capace di distruggere la vita, in senso stretto o figurato, della compagna.

Evento, lo ammetterete, che capita un po’ più frequentemente.

Possiamo quindi parlare di Homme Fatal, ossia la versione maschile dell’irresistibile manipolatrice che entra nella vita degli altri per condurli alla rovina?

La prima faccia che vedo, all’apparire del concetto, è quella di John Malkovich nel film che Jane Campion trasse da Ritratto di signora, il capolavoro di Henry James. Certo, Gilbert Osmond, l’esteta trapiantato a Firenze, non è il primo amante sadico a comparire; bisognerebbe quantomeno citare Valmont di Le relazioni pericolose (e di nuovo Malkovich), non fosse che, nel capolavoro di Laclos, il cattivo non è poi così cattivo, parzialmente si redime – illusione che sta alla base di mille, vane speranze di aspiranti crocerossine.

In Ritratto di signora, Osmond non cambia mai, se non, all’apparenza, quando deve conquistare la sua preda: e c’è qualcosa di infinitamente perverso nella sua decisione di sposare la ragazza non solo più corteggiata, non solo più ricca, ma più libera di tutte, qualcosa di incredibilmente sadico nel suo desiderio di trasformare quel nucleo di bellezza e libertà in un animale impagliato, nell’ennesimo oggetto bello e privo di vita da aggiungere alla sua galleria d’arte.

Trovandomi a ripercorrere una carrellata di questi uomini fatali per costruire un personaggio – James Tocci, nel mio I giudizi sospesi – mi sono convinta che Osmond vinca su tutti i suoi rivali, da Valmont ad Alec di Tess dei D’Uberville, da Rodolphe di Madame Bovary al più recente Nino Sarratore: vince perché calcola tutto, perché riesce a creare prigioni fatte non di acciaio ma di sensi di colpa, vince perché Isabel è una creatura libera, eppure lui riesce lo stesso a trasformarla.

Buffo come proprio Henry James, che di relazioni di coppia non aveva nessuna esperienza, sia riuscito a creare un assassino sentimentale così perfetto; forse mi aspettavo che un tipo del genere uscisse, piuttosto, dalla penna della sua amica Edith Wharton, che passò parte della sua vita accanto a un mediocre collega che non mancava mai di ricordarle quanto lei valesse poco (tanto da essere citata più volte nel bellissimo saggio Perversioni al femminile. Le tentazioni di Emma Bovary, che la psicoanalista Louise J. Kaplan ha dedicato all’autosabotaggio femminile) – e invece, magia, dalle mani di Edith Wharton è uscito l’uomo più empatico e struggente del romanzo moderno: Newland Archer di L’età dell’innocenza.

Il Novecento è colmo di uomini fatali, ma un sottile spiraglio sembra aprirsi: la pressione sociale si allenta, le donne possono lavorare e divorziare – dai Nino Sarratore di turno ci si può salvare, rimettersi a posto, magari con un bambino non riconosciuto o senza più una casa. Eppure, è sufficiente buttare un’occhiata alla cronaca per capire che, da certi individui, non è facile allontanarsi: chissà se Gilbert Osmond, mollato davvero dalla moglie, avrebbe accettato il diniego o si sarebbe trasformato in un femminicida, col sottile benestare di articolisti che lo avrebbero descritto come il “povero vedovo che non riusciva a superare l’abbandono della seconda moglie”?

Di certo imparare a riconoscere questi “uomini fatali” è diventato un argomento comune, tanto da entrare addirittura nei film per bambini: colui che, infatti, oggi ricorda più Gilbert Osmond non è tanto Nino Sarratore (che odiamo tutti, vero, ma che non costruisce un carcere attorno a chi finge d’amare), ma Hans di Frozen, che per poco non ammazza entrambe le principesse per ergersi a Re di Arendelle.

Ma Anna ed Elsa si abbracciano, sciolgono il ghiaccio nella sorellanza: ok, detta così, suona tutto molto didascalico; però ammetto di non riuscire nemmeno ora, alla ventesima visione, a guardare quella scena senza piangere – e chi lo dice che per emozionare dobbiamo battere sempre sugli stessi tasti?, chi lo dice che non cresceranno più felici bambine che hanno pianto di commozione per l’abbraccio tra due sorelle, piuttosto che per l’abito da sposa di Cenerentola?

silvia dai pra' i giudizi sospesi

L’AUTRICE – Silvia Dai Pra’ è nata a Pontremoli, cresciuta a Massa, ed ora vive a Roma, dove insegna in una scuola superiore. Laureata in Lettere, ha conseguito un dottorato di ricerca dedicato all’opera di Elsa Morante. Tra i suoi libri: La bambina felice (Gremese 2007), Quelli che però è lo stesso (Laterza 2011), Senza salutare nessuno. Un ritorno in Istria (Laterza 2019).

Per Mondadori è in uscita con il romanzo I giudizi sospesi. Veniamo alla trama: i Giovannetti sono la classica famiglia intellettuale di sinistra: il padre insegna Lettere e Filosofia: brillante e bello come un attore, è la leggenda del liceo locale. La madre è professoressa di Arte alle medie, è appassionata al suo lavoro, ma ancora di più ai suoi figli. Perla è una fuoriclasse, bravissima a scuola, responsabile: matura, da sempre; Felix è il fratello minore, affettuoso e intelligente, un po’ imbranato, da sempre offuscato dalla luce accecante di lei. Tutti si aspettano grandi cose da Perla. Ma da quando si è fidanzata con un certo James, un ragazzo più grande, è cambiata: insofferente, sarcastica, nulla le interessa più. Nella sua metamorfosi, poco alla volta la figlia perfetta si sgretola, e nella sua caduta trascina con sé la famiglia, mostrandone il lato oscuro: i compromessi, le rinunce, le ipocrisie che fino a quel momento erano sembrate accettabili si riveleranno velenose, infestanti. La voce narrante è quella dell’outsider, Felix, “il figlio sbagliato” ironico, intelligente, defilato: l’osservatore ideale. Lo sguardo di Silvia Dai Prà non è mai giudicante, ed è vicino ai suoi personaggi senza sentimentalismi.

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