“Un animale, in ambito narrativo, è un elemento più flessibile. Gli animali riescono a muoversi attraverso la trama con una facilità che i personaggi umani non hanno”. Bernardo Zannoni dialoga con ilLibraio.it in occasione dell’uscita del suo esordio, “I miei stupidi intenti”, un romanzo sorprendente, che segue le vicende di una faina zoppa che impara a leggere: “La scrittura può darci un’illusione di continuità, di qualcosa che durerà più di noi” – L’intervista

Una faina impara a scrivere, scopre Dio, scopre il tempo, scopre la morte. Questa, in pochissime parole, la trama di I miei stupidi intenti, esordio di Bernardo Zannoni (Sellerio), una delle uscite italiane più interessanti dell’anno e di cui si sta facendo – giustamente – un gran parlare.

Zannoni ha ventisei anni, è di Sarzana e non ha fatto l’università: a ventun anni, invece, ha preferito iniziare a scrivere la storia di una faina, che si è trasformata in un romanzo originale e luminoso. Con penna felice, lirica senza risultare ridondante, Zannoni prende degli animali e li mette in scena nel loro ambiente più consono: un bosco. Animali che parlano, cucinano, stanno seduti su sedie e si scaldano al fuoco, umanizzati, per così dire, ma che rispondono anche agli istinti più ferini e che, privi di una vera coscienza, non conoscono la paura del tempo che scorre. Un mix che crea un immaginario affascinante e in cui Zannoni si muove a suo agio, senza risultare banale nelle scelte narrative e lessicali.

Il protagonista, Archy, è una faina zoppa, venduta dalla madre per una gallina e mezza a Solomon, volpe usuraia che, su una Bibbia, ha imparato a leggere, ha scoperto il concetto di morte e che sta scrivendo la sua autobiografia (molto) romanzata. Archy coglie questa possibilità e, a suo tempo, la regalerà a un altro animale, Klaus, un istrice remissivo incontrato fortuitamente.

I miei stupidi intenti è un romanzo sulla parola, che una volta scoperta diventa il mezzo per raccontarsi, sperando che la propria vita, così, non scompaia, in un’infinita riproducibilità del linguaggio. È anche il debutto di una nuova voce, che speriamo abbia ancora nuove storie da raccontare.

ilLibraio.it ha intervistato l’autore in occasione dell’uscita del romanzo, per affrontare con l’autore le tematiche principali che emergono.

Bernardo Zannoni, I miei stupidi intenti, Sellerio

Zannoni, come nasce I miei stupidi intenti?
“Carezzavo l’idea di una storia nel bosco da parecchio tempo, la vera difficoltà è stata mettermi al computer: ho cominciato a scriverlo a ventun anni, ero pieno di altri stimoli, di cose da fare, e facevo fatica a concentrarmi più di mezz’ora. Però mi frullava in testa questa idea del bosco, che è un ambiente indefinito, può essere piccolo, può essere immenso, ci si può perdere, lo puoi conoscere… Quando inizio a scrivere qualcosa, in primis penso sempre al luogo dove si svolge e che deve risultarmi familiare, o farmi paura, o darmi qualche altra suggestione. Quando ho iniziato, però, non mi sono detto: ‘scrivo la biografia di una faina, terribile, senza speranza’. In realtà la mia idea iniziale era un testo più leggero, con un animale che viveva con il fratello un po’ tocco dentro un tronco marcio, e che magari era uno scrittore fallito che lavorava per il giornale del bosco. Invece quando ho cominciato a scrivere, la storia ha preso un piglio tutto suo, ed è diventata qualcosa di completamente diverso”.

Devo chiederglielo: come mai gli animali?
“Perché un animale, in ambito narrativo, è un elemento più flessibile. Gli animali riescono a muoversi attraverso la trama con una facilità che i personaggi umani non hanno. Devi spiegare meno, giustificare meno i loro sentimenti, e in questo modo  riescono a districarsi meglio attraverso il filo conduttore della trama. E poi millenni di favole ci hanno abituati alle caratteristiche di ogni specie: il lupo è aggressivo, il cane è fedele, la volpe è furba. Mi interessava provare a uscire da questi canoni”.

E come si è orientato per la creazione dei suoi personaggi, proprio dal punto di vista del legame tra tipologia caratteriale e specie?
“Direi che è stato un processo istintivo. Mentre scrivevo, la storia procedeva per conto suo: non ho fatto scalette, non mi sono prefissato percorsi, una cosa ha tirato l’altra e quando subentrava un personaggio riuscivo a intuire che ruolo e che carattere dovesse avere, però l’animale in sé non era particolarmente importante. A parte Gioele, che doveva necessariamente essere un cane, non mi sono attenuto molto alla specie”.

E invece, per quanto riguarda il protagonista, Archy, il fatto che sia una faina risponde a una necessità specifica?
“Mi premeva dargli questo aspetto perché la faina non è un animale blasonato, non ci sono grandi libri o grandi componimenti che parlano di faine e neppure io le ho mai considerate particolarmente nel mio immaginario. Insomma, volevo dare un po’ di luce a un animale abbastanza trascurato”.

Lettura e scrittura vanno di pari passo, gli animali imparano a leggere per tramandare la loro esperienza in una continua operazione di accrescimento.
“Lettura e scrittura vanno di pari passo, sono parallele: se nessuno sapesse scrivere, non potremmo leggere, sono due aspetti del tutto complementari. La tematica della scrittura e della lettura è quella che si accompagna alla conoscenza della morte e di Dio. Prendere atto del fatto che la tua vita è mortale, che finirà, è un trauma tremendo. Dio è una risposta che ha la funzione di rassicurare con una speranza di salvezza. La scrittura, invece, lo sappiamo benissimo, non può darcela questa salvezza, però può darci un’illusione di continuità, di qualcosa che durerà più di noi, perché, una volta scritte, le parole diventano immortali”.

Alla fine della storia una domanda resta nell’aria: cosa ne sarà della scrittura tra gli animali? L’istrice Klaus sarà poi in grado di comprendere il dono ricevuto e tramandarlo?
“Klaus incontra Archy quando è già adulto e ha già vissuto una vita da animale, ma Klaus è un animale isolato e la solitudine fa porre tante domande, fa riflettere. Se Archy lo sceglie è perché in lui vede un dono: il dono del reietto, di chi si è posto delle domande e ha affrontato se stesso. Io mi accontenterei già del fatto che alcuni animali abbiano scoperto la scrittura, non è detto che debbano scoprirla tutti. Se fosse per Solomon non la scoprirebbe nessuno: era il suo segreto più importante e la sua forza. Quello che farà Klaus non possiamo saperlo, ma io mi auguro che ci provi, a insegnarla”.

Una delle grandi tematiche del romanzo è il contrasto tra ragione e istinto. La faina scopre Dio, scopre la morte, ma così la sua vita è migliore rispetto a quella degli altri animali?
“La vita di un animale non si può paragonare a quella di un essere che ha una coscienza e un’idea del presente, del passato e della morte. Insomma, la vita di Archy è una cosa e la vita di un’animale che rimane tale è un’altra, perché è puro istinto, segue il flusso della natura e del mondo, vive il presente. Come diceva Borges: a parte gli uomini tutti gli animali sono immortali, perché ignorano la morte. Scoprire Dio, scoprire la morte, sia per Solomon sia per Archy è qualcosa di distruttivo, è un’epifania nera. Ma questa consapevolezza riesce a fargli formulare dei pensieri destinati a permanere nel tempo, come accade a noi”.

Al binomio Dio-morte si aggiunge un terzo termine: il tempo.
“Il tempo corre di pari passo con la morte. Quando Archy scopre l’orologio, Solomon gli dice di buttarlo subito via, perché è qualcosa che centellina i giorni che rimangono e lui non ci vuole nemmeno pensare. Quando il tempo diventa nostro avversario si cerca di combatterlo come si può”.

Considerando che si tratta di un romanzo piuttosto lontano dai canoni editoriali e quanto sia difficile per un esordiente accedere a un editore di qualità come Sellerio, qual è il percorso che l’ha portata alla pubblicazione?
“Quando ho finito il libro, ho ripreso a lavorarci e a rivederlo nelle sue parti minime con un’editor, Chiara Belliti, e con lei ho scelto di mandarlo a Sellerio. Una scelta che è stata condivisa anche da Marco Missiroli, che ho conosciuto anni fa Torino e con cui ho fatto amicizia, anche se all’epoca ero un ragazzino. Devo dire che non ho avuto grandi ‘anticamere’: il libro è stato letto in poco tempo da Sellerio e sono stati davvero disponibili, una cosa che mi è piaciuta molto”.

E come si è avvicinato alla scrittura?
“Ho cominciato a scrivere da bambino, appena ho imparato l’alfabeto ho iniziato a inerpicarmi per le strade della sintassi. Essendo molto sognatore, appena mi sono reso conto che la realtà era più deludente di quello che immaginavo nella mia testa, ho dovuto trovare un compromesso: immaginare qualcosa o scriverla su un foglio è nettamente diverso, perché da scritta diventa più concreta, viene trasferita nel reale. Sono partito da quel bisogno”.

In quarta di copertina il suo romanzo viene accostato a Camus e nelle recensioni è stato collocato accanto a classici come Il vento tra i salici e La collina dei conigli. Si ritrova in questi accostamenti?
“Come ogni opera, anche la mia si può affiancare a qualsiasi altra, si possono trovare richiami ovunque. Certo, sono tematiche che si ritrovano anche in altri romanzi, d’altronde non si pensa mai a nulla di nuovo, qualunque cosa è già stata detta. Io non ho trovato analogie assolute con un’opera in particolare, o perlomeno non ci ho pensato quando l’ho scritto. Non mi sono mai posto troppo il bisogno di cercare qualcos’altro nella storia o nel libro”.

L’APPUNTAMENTO A PIU’ LIBRI PIU’ LIBERI – Bernardo Zannoni presenta I miei stupidi intenti l’8 dicembre a Roma, alle 18, nelle Sala Aldus. Con l’autore, interviene Enrico Alleva. Modera Mattia Carratello.

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