Con “Il fiore delle illusioni” Giuseppe Catozzella racconta una storia nostra, una vita agra in un’Italia di fratture che non è in grado di proteggere le generazioni più giovani. I due cugini protagonisti sono i volti di una generazione che rivendica il diritto di sognare
“Tutto era diverso, lì. Il mondo, fuori, forse era lo stesso, ma se lo era non lo sembrava. Si respirava lo spazio, quello del fieno da poco trebbiato che tagliava la valle; e il tempo era nelle increspature delle cortecce dei faggi”.
Quando l’estate arriva, per Francesco c’è un’altra vita ad aspettarlo, un’altra Italia: lo accoglie una casa in pietra a Monte Aspro, dove le ore scorrono in gesti ripetuti sempre uguali, con la nonna rimediante del paese, con il cugino Luciano, i colori e i tempi della natura.
Lì sembra che le regole si allentino, la tensione di Milano si placa, le spalle si abbassano e l’aria si respira a pieni polmoni: dopo l’inverno milanese, con le sue rigidità e le sue battaglie, lo spazio della Basilicata è libertà.
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La frattura degli emigranti si ricompone ogni anno così: Francesco e i suoi genitori ritrovano pezzi di sé, di quelle origini che “su” sono una macchia, una vergogna da relegare in cantina, con i poster del paese appesi dove nessun altro li vede, e le scorte del cibo preparato da nonna, un’appartenenza a cui ci si aggrappa di nascosto. Vite spezzate in un’Italia che si apre in due come una ferita dentro Francesco, che a Monte Aspro è Fra’, il milanese, e a Milano è il teruncel, sempre attento a mascherare l’accento al nord, e la parlata milanese quando torna “giù”.
Sembrerebbe lontano quel sud fotografato da Levi, che aveva immortalato anche il padre di Francesco come bambino della miseria, il simbolo di un mondo condannato. Quel sud è ancora la terra di Silone, immobile, una terra dove i vincitori e i vinti sono gli stessi da sempre: è il volto di un’Italia di misteri, credenze, morti al fianco dei vivi, natura e animali, dove terra e religione si dividono le persone. È un’Italia da cui molti, come i genitori di Francesco, sono scappati in cerca di un futuro, per poi idealizzarla, come si idealizza il passato: al nord hanno trovato lavoro in un’Italia di veleno, di urbanizzazione feroce, di progresso che ha scavato buche nella società, di mafia che lì al nord ha saputo ricavare frutti, coltivando soldi e potere.
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Il fiore delle illusioni di Giuseppe Catozzella (Feltrinelli) è la storia di Francesco e Luciano, cugini d’estate, legati dalla vita che si scopre crescendo, divisi da una donna dalle gambe lunghe, ed è la storia di un’Italia che non sa cambiare, e che ammazza i sogni di chi spera in un futuro diverso da quello dei propri genitori.
La storia siamo noi, siamo noi padri e figli: ma un’Italia che uccide i sogni è un paese che uccide le persone, che non consente di vivere una nuova storia, in una nuova evoluzione sociale.
In un paese così il progresso è un’illusione, è il contrario della libertà.
Luciano e Francesco sono i due volti di una generazione che rivendica il diritto di sognare, uno costruendo il suo futuro sulla terra, investendo in un’impresa agricola, l’altro seguendo la strada scivolosa della letteratura, per raccontare verità. Scrivere per Francesco è un atto di coraggio, verso se stesso, verso i suoi genitori e i loro sacrifici: è un sogno da spiantato, il suo, che rovista negli angoli di una realtà che ha l’urgenza di sentire parlare di autenticità.

Giuseppe Catozzella
“Non era quella la felicità, mi dicevo: dimenticarsi? E non erano i libri, che scoprivo ogni giorno di più, un altro modo per dimenticarsi? E non lo erano, in fondo, anche le cose che provavo a scrivere? Aspiravo a sparire, a scordarmi il mio nome e il mio cognome, volevo solo fondermi con un’azione”.
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Ogni estate, lasciate alle spalle le difficoltà della città, le umiliazioni di un razzismo tenace, le frustrazioni di un lavoro tossico, Francesco riscopre l’incontro con Monte Aspro, e con la fede di Luciano, che prega lavorando i campi, che si affida a due letture, sempre le stesse, la Bibbia e Walt Whitman, che contengono tutto, come la terra e come il cielo: quando la città lo tradisce, è tra le colline di Monte Aspro che Francesco cerca il rimedio alle proprie contraddizioni.
Giuseppe Catozzella racconta una storia nostra, una vita agra in un’Italia di fratture che non è in grado di proteggere le generazioni più giovani, che ha soffocato quelle dei loro padri con l’illusione del boom economico, ha lasciato nella società voragini di valori, ha lasciato soli Falcone e Borsellino.
Per Francesco il sogno è usare le parole di Montale, croccanti e autentiche, per rivendicare il diritto a indagare la realtà: è quello l’assalto al suo futuro, quella la strada di una cultura evolutiva e costruttiva. Dall’altra parte dell’Italia la terra insegna la lentezza, l’accettazione del tempo e la concretezza inafferrabile delle stagioni, le leggi di un’impermanenza di fronte alla quale l’uomo può solo credere, scrivere, seminare.
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“Avevo l’illusione che niente si muovesse, che tutto sarebbe sempre tornato uguale all’infinito. Niente, mai, ci avrebbe ferito: le piante, la terra, le vacche, le capre, i cani, generando discendenza e morendo avrebbero lasciato noi intatti. Noi salvi, per sempre”.
Ci deve essere ancora spazio per sanare la ferite di un paese dove il nord vive il vuoto sociale del denaro e della solitudine e dove il sud al contrario è ancora oppresso da legami, da vincoli al di fuori dei quali non si può esistere: è lo spazio della parola che può restituire energia a un’Italia che è ancora drammaticamente quella che Foscolo definì un organismo abbandonato a una lenta e letargica consunzione, e che invece deve scoprirsi vitale, in una continua costruzione.
Il fiore delle illusioni è magico nel ritratto di una terra dove le ombre sono corte e tutto sembra coincidere perfettamente, ed è feroce e lucido nell’analisi di un decadimento sociale che non ha nulla del progresso e della crescita, nulla a che fare con la vita vera.
Serve costruire, ricostruire, diventare, per imparare, trasmettere e fare, e poi per raccontare, perché la scrittura è verità, impegno e partecipazione, e perché la storia del nostro Paese siamo noi, e la nostra dignità.
“Pensai che la verità era il dolore delle cose naturali, lo strazio e la fierezza di esserci, la dignità di fronte alle perdite, alla morte; e dipingerla senza paura del ridicolo, tutte le cose vere erano ridicole, eccessive; solo la menzogna era mediata, era decente. Di quella si cibavano i corrotti”.
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