“Perché nella nostra tradizione moderna e contemporanea non esiste, a differenza della letteratura delle altre lingue europee, un’epica della nazione?”. Su ilLibraio.it la riflessione dello scrittore Giuseppe Catozzella, in libreria con “Italiana”, libro dedicato alla figura di Maria Oliverio, altrimenti conosciuta come “Ciccilla”, la prima e unica donna a guidare una banda contro la ferocia dell’esercito regio

L’idea di Italiana trae forse origine da una provocazione e insieme da qualcosa che non c’era e di cui sentivo la mancanza, da scrittore e da italiano che per carattere e per lavoro ha vissuto e viaggiato fuori dal suo Paese. Dal vuoto cioè di grandi narrazioni (epiche, le narrazioni sulla storia di un popolo credo rientrino senza eccezioni in questa casistica), di grandi narrazioni epiche sul carattere per così dire nazionale del nostro Paese.

Perché, mi chiedevo, nella nostra tradizione moderna e contemporanea non esiste, a differenza della letteratura delle altre lingue europee, un’epica della nazione? E perché quando esiste (e penso, per limitare gli esempi a uno solo, a un romanzo recente e bellissimo che credo faccia intendere ciò che voglio dire: Il romanzo della nazione di Maurizio Maggiani) è sempre “in negativo”, “per difetto”, “in absentia”?

Perché, di noi, tutto ci concediamo di dire (specialmente se è proprio contro la nostra appartenenza nazionale), salvo l’abbandonarci all’essere, appunto, italiani? Perché ce ne vergogniamo – di questo, alla fine, si tratta?

Non è questione da poco, anche se a noi viene fatto di scrollare le spalle. Di tutti i Paesi a noi interessa, tranne che dell’Italia. Siamo campioni di esterofilia. È però in verità un atteggiamento molto strano; siamo un unicum, di certo in Europa, forse nel mondo. Ci identifichiamo col nostro cognome, con la storia della nostra famiglia, con il nostro gruppo, con la nostra cerchia, con il nostro campanile, ma non con il Paese. Quando all’estero ci chiedono di dove siamo nicchiamo. Francesco Totti, diciamo. Valentino Rossi. Ferrari. Che non venga fuori “pizza, spaghetti, mandolino”, che non venga fuori la macchietta. Che non venga fuori Berlusconi. Ora per fortuna abbiamo Draghi, il meno italiano degli italiani. Di lui sì che possiamo parlare, ancora per un po’.

Credo che la questione dell’assenza di narrazioni epiche sia legata all’assenza di un sentimento nazionale, quello che Cattaneo, Berchet e Pellico cercavano di inventare più ancora che di diffondere, quello che Manzoni prescrive più ancora che descrive, in Marzo 1821, dove invitava gli italiani a sentirsi legati a una Patria comune che ancora non c’era ma che presto sarebbe stata fatta, e che avrebbe dovuto trovare una causa e una giustificazione non in una guerra ma nello spirito di un popolo che però non esisteva.

“Una d’armi, di lingue e d’altare, di memorie, di sangue e di cor”, prescriveva Manzoni, invitando (e naturalmente l’invito era rivolto solo a chi sapeva leggere, e a chi poteva intervenire nel dibattito culturale e “movimentista”) a ricordare le battaglie del passato glorioso degli italiani/romani; a ricordare che c’era una lingua unica (che invece non c’era, e neanche per le élite, tanto che lui stesso dovette dedicarsi per vent’anni alla scrittura dei Promessi sposi proprio con l’intento di “crearla”), che c’era un unico altare (quello sì c’era, ed era l’unica cosa che davvero accomunava gli abitanti della Penisola: un’unica fede, marmorea e convinta, nel Dio del Cattolicesimo, rappresentato dal re dello Stato pontificio. Un Dio buono che si era incarnato per risarcire nell’Aldilà i torti subiti); le memorie comuni dovevano essere quelle gloriose della romanità e del Rinascimento; l’allusione al sangue invece è un vero e proprio gioco retorico, un gioco di prestigio biologico chiamato a risucchiare le divisioni in Stati in conflitto; e infine quella al “cor” è il capolavoro melodrammatico di Manzoni, che sarebbe stato accolto in pieno qualche decennio dopo dal più celebre degli scrittori popolari del Risorgimento, l’Edmondo De Amicis di Cuore più ancora di quello di Sull’oceano. Possiamo essere distanti quanto vogliamo, possiamo appartenere a Stati in guerra tra loro, ma alla fine volemose bene, siamo tutti italiani e tutti brava gente, gente dal cuore grande.

C’è, certo, I viceré della fine dell’Ottocento. Ci sono, certo, I carbonari della montagna di Verga, I malavoglia, Mastro don Gesualdo e più ancora il suo racconto Verità, sui fatti reali di Bronte dell’estate del 1860, quando i braccianti furono fucilati e incarcerati a vita da Nino Bixio per aver preso sul serio le promesse di Garibaldi di liberarli dalla schiavitù medievale dei nobili “cappelli”.

C’è I vecchi e i giovani di Pirandello, violento atto d’accusa contro il tradimento dello Stato unitario (“Tu non hai rubato, figlio, non hai prestato man forte a tutte le ingiustizie e le turpitudini che qua si perpetrano protette dai prefetti e dai deputati, non hai favorito la prepotenza delle consorterie locali che appestano l’aria delle nostre città come la malaria le nostre campagne!”); c’è Il gattopardo, che racconta per sempre il nostro restare immobili davanti alla Storia come Edipo fa davanti allo specchio. C’è lo Sciascia delle Parrocchie di Regalpetra, del Consiglio d’Egitto, della Zia d’America, del Quarantotto, che scolpisce una terra che attraversa indenne tutte le rivoluzioni come fastidiose perdite di tempo, dove i francesi spediti in Italia per conquistarla esclamano attoniti: “Ma questo popolo non vuole essere liberato!”.

C’è, infine, La conquista di Roma di Matilde Serao, i romanzi importanti di Carlo Alianello (bellissimo, per esempio, L’eredità della priora), il magnetico Sorriso dell’ignoto marinaio di Vincenzo Consolo, i romanzi storici nella Sicilia postunitaria di Andrea Camilleri e, per citarne uno recente e popolare, La zia marchesa di Simonetta Agnello Hornby, maestra del romanzo storico.

Nessuno dei romanzi di questo corpus tutto sommato omogeneo, però, si confronta con l’epica, nessuno trova nelle gesta la ragione della sua scrittura. Tutto c’è, verrebbe da dire, nella narrazione della nostra storia, fuorché epica. Se così è, e credo che i fatti lo dimostrino, forse lo è anche perché, come ha detto Michela Murgia in un commento su Italiana, una narrazione senza epica è una narrazione senza etica, e dover ammettere la seconda equivarrebbe a tornare alla prima. Ma tornare alla prima significherebbe scovare le ragioni del tradimento – che sta alla base di ogni epica – che fonda il nostro Paese. Tradimento del Nord verso il Sud e tradimento delle élite verso il popolo (sono questi due tradimenti la materia di tutti i romanzi citati sopra). È su questa doppia frattura che è costruito tutto il nostro disincanto. Ma non solo. È su questa doppia frattura che è costruito tutto il nostro disimpegno. E così non tornare a quella frattura è continuare a vivere, a produrre, a consumare, a esistere nell’interregno, nel “regno di mezzo”, nello scarto di fiducia tra una promessa e il suo mantenimento. Ovvero poter fare un po’ come ci pare. Niente di male, si intende, ma niente di adulto e di reale, però.

In Italiana, dopo un lunghissimo lavoro di documentazione e di archivio, attraverso i faldoni dei processi istruiti contro di lei tra il 1864 e il 1875, racconto la storia di una donna, Maria Oliverio, che combatte per diventare se stessa, che trova il coraggio di inseguire il sogno di diventare chi era destinata a essere. E la sua storia, incredibilmente innanzitutto per me, mentre ero immerso nelle carte della sua feroce e tormentata esistenza, coincide con la storia di un Paese che combatte per liberare se stesso. E coincide con il racconto, forse per la prima volta, della Guerra civile italiana. Quel paese è il nostro. È bastato raccontare la storia di Maria Oliverio, passata alla leggenda come Ciccilla, l’unica donna a guidare una banda di briganti, lasciare che fosse lei a raccontare la sua storia con la sua stessa voce, per ritrovare qualcosa che forse assomiglia alla nostra epica. La nostra epica, certo. Perché Maria la guerra per fare dell’Italia un paese libero la perde.

Giuseppe Catozzella Italiana

L’AUTORE –  Giuseppe Catozzella (Milano, 1976) è autore di reportage e romanzi tradotti in tutto il mondo, tra cui Alveare (Rizzoli, 2011), Non dirmi che hai paura (Feltrinelli, 2014, vincitore del Premio Strega Giovani) e E tu splendi (Feltrinelli, 2018).

Il suo nuovo libro, Italiana, mescola documenti e leggenda ed esce per Mondadori: protagonista è una donna italiana, Maria Oliverio, altrimenti conosciuta come Ciccilla.

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