“Le vittime della bomba atomica, prima ancora di essere vittime della guerra o dello scontro generato tra nemici e alleati, sono vittime del genere umano”. In occasione del 70esimo anniversario del bombardamento atomico di Hiroshima e Nagasaki, sono tornati in libreria per Gallucci i racconti di Kyoko Hayashi. Su ilLibraio.it la lunga prefazione dell’autrice, un viaggio nel tempo, per non dimenticare…

A Ground Zero*

Il 16 luglio 1945 fu sperimentata per la prima volta nella storia negli Stati Uniti, a Trinity Site, la bomba atomica: l’epicentro dell’esplosione fu chiamato Ground Zero. Per l’esperimento fu impiegata una bomba al plutonio, come quella che sarebbe stata usata a Nagasaki. Il 9 agosto 1945 fui colpita a Nagasaki dalla bomba atomica. Tre giorni dopo mia madre e mia sorella vennero a cercarmi e partimmo per Isahaya, dove giungemmo nel pomeriggio. Passando davanti al Municipio incontrammo la ragazza che lavorava lì a servizio. Mi guardò e disse a mia madre nel dialetto di Nagasaki: «Le vittime di quella bomba, anche se tornano a casa vive, prima o poi muoiono tutte». Fu uno shock: era la prima volta che sentivo dire una cosa simile. A sorprendermi fu soprattutto la rapidità con cui si era diffusa una notizia non ancora ufficiale. A Hiroshima era già stata sganciata un’altra bomba, ma la censura aveva occultato la situazione reale parlando solo di danni minimi. Tuttavia, di bocca in bocca, con una velocità sbalorditiva, si era andata diffondendo la realtà della morte totale portata dalla bomba atomica. Percepisco in questo la straordinarietà degli individui. Da parte americana, la potenzialità dell’atomica fu oggetto di una lettera, contenuta nelle tre radio sonde lanciate immediatamente prima della bomba, e indirizzata a uno scienziato giapponese, il professor Sagane. Una delle sonde si impigliò sui rami di un albero nella zona montagnosa alla periferia di Isahaya, ma fu scoperta dalla gente del villaggio e trasportata dai militari con un treruote all’alloggio della Marina. La sonda era legata a un paracadute e serviva a rilevare le condizioni atmosferiche e la potenza dell’esplosione, i cui dati particolareggiati sarebbero stati telegrafati alla base di Tienan. La lettera per il professore era coperta da una plastica trasparente e collocata al lato della trasmittente, visibile anche dall’esterno, inserita in una busta bianca aperta. Come mittente riportava “Tre amici scienziati”. Erano tre professori del Centro di ricerche atomiche dell’Università della California: “La ragione per cui le inviamo questo messaggio personale è una sola: vogliamo che informi gli ufficiali giapponesi che se la guerra continua, il popolo giapponese andrà incontro a perdite immani. Abbiamo completato l’impianto per la realizzazione di bombe atomiche e, accelerandone la produzione, sarà molto semplice distruggere il suo paese”. La data era quella del 9 agosto 1945 e come luogo di emissione riportava “Comando atomico statunitense”.
Era la prima volta che veniva usata l’espressione “bomba atomica”. La lettera conteneva un messaggio personale, ma considerato il luogo di emissione e il fatto che la busta non era chiusa, si deduce che fosse uno strumento di propaganda nel contesto più ampio della guerra tra nazioni; forse la lettera era stata anche pensata per il professor Sagane, ma innanzitutto era calcolato che circolasse tra la gente comune. Purtroppo essa fu requisita dal governo e, dati i disordini che seguirono la fine della guerra, fu resa nota solo molto più tardi. Trovo particolarmente interessante considerare il modo in cui le notizie sui fatti del 9 agosto furono trasmesse ufficialmente rispetto a come circolarono tra la gente comune. Mi sento un po’ sollevata al pensiero che anche le persone singole possano avere un certo potere. Quale scrittrice, anch’io come la ragazza che lavorava al Municipio cui accennavo, ricorro alla comunicazione diretta tra individui, sebbene non si tratti di una diffusione di bocca in bocca. Scrivo testi che vengono stampati e acquistano significato nella loro circolazione tra i singoli individui: il mio è un lavoro artigianale. Sono stata a Trinity il 2 ottobre 1999. Due o tre giorni prima avevo visitato il National Atomic Museum di Albuquerque, nello stato del New Mexico, e il Science Museum che si trova nel National Laboratory di Los Alamos. Il 1 ottobre, tornando la sera in albergo, avevo saputo dell’incidente di criticità
occorso all’impianto di lavorazione del combustibile nucleare a To¯ kaimura. Era una coincidenza eccessiva che io, superstite della bomba atomica, venissi a conoscenza di una tale notizia proprio negli Stati Uniti. Non capendo bene l’inglese, guardavo le immagini trasmesse in TV senza afferrare la gravità della situazione. L’amica che era con me mi spiegò che il governo giapponese chiedeva soccorso agli Stati Uniti per far fronte all’incidente.
Sono rimasta allibita. Non sono serviti a niente il 6 e il 9 agosto? Non è stato tratto nessun insegnamento dall’essere un Paese vittima della bomba atomica e dalla lunga esperienza dei sopravvissuti? Se tutto questo fosse servito a qualcosa, io e le altre vittime troveremmo un minimo di conforto. Con un sentimento di profonda delusione verso il mio Paese il giorno dopo mi sono recata a Trinity. Dalla capitale dello stato, Albuquerque, dista 120 miglia. È una vasta e arida pianura di terra rossa, estesa fino all’orizzonte, abitata da cactus e serpenti a sonagli, dove non cresce niente che superi le caviglie. Una parte della zona è delimitata da un recinto verde che racchiude Trinity Site. Trinity, come “Uno e trino”: questo nome pare gli sia stato dato da Oppenheimer e confesso che le ragioni della sua scelta mi incuriosiscono.
Per entrare, molto prima del parcheggio, c’è un cancello formato da pali di ferro incrociati. Un cartello informa che siamo in una zona militare, al di fuori della giurisdizione del New Mexico. All’ingresso ciascun visitatore riceve una carta d’intenti con 13 condizioni, fra cui leggiamo che si vieta qualunque tipo di manifestazione, che non si possono portare armi né raccogliere vetro, terra, sabbia, erba. Si avverte inoltre che, in un’ora di permanenza, il livello di radiazioni a cui si è sottoposti è dieci volte maggiore della media. La responsabilità di eventuali danni per chi non rispetta i 13 punti è rimessa al singolo – cosa che dà una sensazione rassicurante…
Il foglio va letto, firmato, consegnato all’addetto, e solo così si ottiene il permesso di entrare. L’automobile va lasciata nel parcheggio, e si procede a piedi per circa 400 metri, verso Ground Zero. Il cratere che si formò al momento dell’esperimento nucleare è racchiuso da un basso recinto, fatto in modo che dall’alto si
possa guardare al suo interno. In quel punto la terra diventò come spuma, gli elementi del terreno, per il calore e il vento dell’esplosione, si trasformarono in sferici agglomerati di vetro, pietra e ferro. Tutto è stato lasciato intatto. Su una torre di ferro alta circa 300 metri fu collocato l’esplosivo Tnt che fu fatto esplodere da circa 110 miglia con un comando a distanza. Pare che gli scienziati fossero incerti sulla riuscita di quel primo esperimento, ma il risultato fu al di là di ogni aspettativa. Al momento dell’esplosione la torre si fuse completamente, e di essa oggi non resta nulla. Si possono vedere invece i resti di una capsula di ferro pensata come scudo per evitare che, in caso di fallimento dell’esperimento, le radiazioni di plutonio si spargessero per l’intero paese; in realtà non ci fu bisogno di usarla e ora giace sul terreno, arrugginita e in parte rotta, ma non per colpa dell’esplosione.
È passato più di mezzo secolo dall’esperimento, ma gli apparecchi allora usati sono tuttora esposti su un tavolo di legno. L’addetto accosta un contatore Geiger a ogni oggetto e l’ago oscilla freneticamente, rilasciando un suono spiacevole.
Al centro di Trinity Site c’è un monumento alto circa tre metri, formato da blocchi di pietra disposti uno sull’altro. È l’unica cosa nella pianura che superi l’altezza umana. Su una lapide riporta inciso: “National Historic Landmark”. La gente accorre da tutti gli Stati Uniti per visitare questo luogo che è aperto al pubblico solo due volte all’anno, il primo sabato di aprile e di ottobre. Penso che gli americani siano spinti a Trinity da sentimenti molteplici, ma tutti allo stesso modo si dirigono in silenzio verso il monumento che da solo si erge nella pianura. Anch’io mi sono incamminata con loro. Il tempo era bello e il cielo azzurro, ma non c’era neppure un uccello, nessun rumore di insetto o soffio di vento, era un mondo senza suono. Mi sono fermata e ho sentito che il mio corpo fremeva, sono stata invasa da una sensazione difficile da definire. Ferma nel luogo dell’esplosione del 16 luglio ’45, ho immaginato il bagliore che bruciò la pianura e la montagna, per poi dissolversi sotto la pioggia insolitamente intensa che cadde quel giorno. Ho percepito il calore di quel momento, ho cominciato a tremare e in mezzo a quel silenzio ho sentito una grande voglia di urlare, di correre. Fino alla mia visita a Trinity avevo pensato che gli esseri umani colpiti il 6 e 9 agosto fossero le prime vittime del nucleare.
In realtà, lì al centro della pianura, ho sentito con anima e corpo che la prima vittima era stata la terra, e con essa i serpenti a sonagli che la popolavano e ogni altra forma vivente. Mi è venuto da piangere. Dal 9 agosto 1945 ho vissuto da superstite della bomba atomica; ho vissuto nel dolore fisico e spirituale generato da quel momento, nell’angoscia di vedere morire mio figlio. Tuttavia, davanti alla terra di Trinity ho percepito la realtà del danno seminato alla radice della mia vita il 9 agosto, ed è allora che sono diventata una vittima a tutti gli effetti.
Dopo la mia visita a Trinity ho pubblicato Toriniti kara Toriniti he (Da Trinity a Trinity). Dalla mia prima opera (Il luogo del rito) a oggi ho continuato a scrivere sul 9 agosto, ma sempre focalizzando la mia attenzione sugli esseri umani. Tuttavia, dopo Trinity, mi sono sentita stranamente confusa sul punto di vista da adottare, in quanto ho avuto la sensazione che ciò che era rappresentato dal 6 e dal 9 agosto fosse ormai passato in secondo ordine.
L’essere umano ha superato un confine proibito ed è questo il vero tema così difficile da affrontare. The Enemy Within (Il nemico interno) è il titolo del libro scritto da Jay M. Gould, laureato in Statistica economica alla Columbia University, assieme ai membri del progetto di ricerca su radiazioni e salute pubblica. Il “nemico interno” di cui si parla è rappresentato dalle sostanze radioattive che noi assorbiamo, qualcosa di invisibile che avviene nel microcosmo: “Le sostanze radioattive assorbite dall’organismo aderiscono agli organi interni e in minima quantità continuano a emettere radiazioni; dopo venti o trent’anni diventano causa dei tumori. C’è un collegamento, ed è questa la cosa più importante riportata nel libro, tra radiazioni e trascorrere del tempo. Quello che viene dalle armi nucleari è quindi un terrore che non ha fine, è la paura per qualcosa che, nel caso degli uomini, resta nell’organismo, e che nel caso della terra permane nelle sue viscere.
Forse non tutti sanno che in Giappone è ufficialmente riconosciuto lo status di superstite della bomba atomica. Considerando la ristretta cerchia dei miei amici, le malattie tipiche sono: tumore, disfunzioni alla tiroide, anemia perniciosa. Ci sono poi malattie senza nome definite comunemente “del ciondolare”: un senso di fiacchezza costante, che impedisce di lavorare e porta a ripetuti ricoveri. Quando il medico accerta che una determinata malattia ha origine dalla bomba atomica, consiglia al paziente di chiedere il riconoscimento ufficiale di superstite, le cui domande si accettano una volta ogni quattro mesi. Dopo il passaggio attraverso una serie di uffici, la pratica viene approvata o rifiutata per insufficienza di prove. In molti casi, come è successo anche ad amici, la morte arriva durante la trafila burocratica. Alcune mie ex compagne di classe si sono viste rifiutare la richiesta nonostante si conoscesse esattamente il luogo in cui si trovavano. Tre anni fa è morta la mia amica Y. Suo padre, direttore della fabbrica Mitsubishi dove eravamo tenute a prestare servizio, morì all’istante o la sera stessa del 9. Anche Y fu colpita dalla bomba in maniera grave e la sua malattia si protrasse per lungo tempo. Tre o quattro anni fa le fu diagnosticata una malattia precisa e fu ricoverata. L’ufficio competente si occupò subito della sua pratica, ma la mia amica morì prima che arrivasse il riconoscimento. Non so se le pratiche siano troppo lente o la morte troppo veloce, ma tutti quelli che si trovano nella condizione di dover inoltrare la domanda sono persone che soffrono per le conseguenze del bombardamento, che hanno perso i familiari, che non si sono potute sposare. Chi ottiene l’approvazione riceve 20.000 yen al mese per le cure mediche, somma molto importante se non si ha un lavoro. Tuttavia, quello che ognuno di noi desidera più del denaro è essere riconosciuti come vittime sofferenti per gli effetti della bomba atomica. Non amo particolarmente le cifre, ma ho molto a cuore il dato circa il numero delle persone scomparse, in quanto rende la misura del danno subito. A volte, proprio ricorrendo ai dati, viene sminuita la relazione tra i morti a causa della bomba e le vittime successive. Nel caso dei discendenti, per esempio, non è chiaro quali siano le conseguenze ereditate da genitori colpiti dalle radiazioni. Il più delle volte la cosa viene liquidata come “oscura”, ma io voglio che il numero delle vittime sia conosciuto con esattezza.
È una questione che riguarda tutti i sopravvissuti, non solo gli amici che non hanno ricevuto il riconoscimento o che sono morti senza riuscire a portare prove sufficienti. Proprio questa “morte oscura” è per me, senza dubbio, la realtà che deriva dall’uso delle armi nucleari del 6 e del 9 agosto. Se penso al senso della mia vita dal 9 agosto a oggi, in ultima analisi credo sia stata nella testimonianza del rapporto tra corpo umano e nucleare. Se questo ha un suo valore, per me è sufficiente. Le vittime della bomba atomica, prima ancora di essere vittime della guerra o dello scontro generato tra nemici e alleati, sono vittime del genere umano.
Al mio ritorno da Trinity sono andata a To¯ kaimura, preoccupata per quanto era successo. L’impianto di lavorazione dell’uranio era circondato da un alto recinto. Nel mio racconto Il raccolto parlo di una fattoria che si trovava esattamente dietro al recinto dell’impianto, all’interno di un raggio di 350 metri dal luogo dell’incidente. Accanto alla strada che costeggiava la fattoria c’era un campo coltivato a patate oltre il quale sorgeva la casa. Mentre camminavo lungo il recinto, ho scorto seduto in un angolo del giardino un anziano agricoltore che mi fissava. Titubante, ho guardato il campo raccogliendo da terra una delle patate: fuori era di un bel colore, ma dentro era molle. Esitavo a fare domande sull’incidente di criticità, ma ho provato a chiedere al contadino se avesse visto un balenìo o sentito un rumore particolare. Lui ha risposto di no. La sua casa rientrava nella zona sotto evacuazione e dopo l’incidente alcuni funzionari lo avevano invitato a sottoporsi a controlli medici. Il figlio dell’agricoltore aveva seguito le disposizioni, ma lui aveva rifiutato. Gliene ho chiesto il motivo, ma lui mi ha risposto con una domanda: «E anche se ci fossi andato?» Ho continuato: «Le patate abbandonate sul campo non le ha potute vendere?» al che lui ha ribattuto prontamente: «Le patate non c’entrano, le avevo raccolte prima dell’incidente». In quella secca risposta ho avvertito il sentimento di chi vive a contatto con la terra, e nella mia mente si è sovrapposta l’immagine della terra ferita di Trinity. “Anche se ci fossi andato?” Può sembrare strano, ma ho provato sollievo alle parole del contadino, sollievo nel vedere che ci sono persone che conoscono il terrore del nucleare, che tra la gente c’è consapevolezza della relazione che corre tra l’essere uomini e il 6 e il 9 agosto.
Le sue ultime parole sono state: “Che pena”, riferite all’operaio deceduto per l’incidente di criticità, un uomo del paese accanto. Ascoltando le notizie avevo preso l’accaduto in maniera oggettiva, ma le parole “l’uomo del paese accanto” mi davano un effettivo senso della realtà.
Ho letto il libro Sta scherzando, Mr. Feynman!, un saggio disinvolto e spigliato scritto dallo scienziato Richard Feynman, che partecipò alla realizzazione della bomba atomica a Los Alamos. Nel libro c’è un capitolo intitolato Los Alamos vista dal basso, che dice: “Dopo l’esperimento eravamo tutti sovreccitati, a Los Alamos. Passavamo da una festa all’altra. Io suonavo il trombone su una jeep. Ricordo che però Bob Wilson se ne stava in disparte, immusonito. ‘Cos’è che ti preoccupa, Bob?’ ‘Abbiamo creato una cosa terribile’ mi rispose […] Io, e tutti gli altri, avevamo cominciato per quelle che ritenevamo ottime ragioni, poi avevamo lavorato sodo per raggiungere lo scopo: era bello, entusiasmante. Avevamo smesso, semplicemente smesso, di pensare. Bob Wilson era l’unico che in quel momento avesse continuato a farlo”.
Durante la mia visita al National Atomic Museum e al Science Museum di Los Alamos ho avvertito ancora un’atmosfera satura di soddisfazione, come per il successo di un lavoro rivolto a una buona causa. È forse naturale, considerato che si tratta di un luogo importante per la storia degli Stati Uniti. Ma ci sono diversi modi di riflettere sulla bomba atomica e sulle sostanze nucleari, e io davvero mi auguro che aumentino le persone che la pensano come Bob Wilson.

*Pubblicato per la prima volta su “Lo straniero”, agosto-settembre 2005, n. 62-63.

IL LIBRO:

gallucci

Per non dimenticare Nagasaki: 4 racconti della scrittrice sopravvissuta 

Libri consigliati