“Di che cosa parliamo quando parliamo d’amore, come scriveva Carver, forse non lo sapremo mai. Ognuno dei personaggi ha una sua resistenza o predisposizione: quello dell’amore e del posto che gli diamo nelle nostre vite rimane un tema misterioso, e come tutti gli enigmi dissemina segnali per essere risolto”: Daria Bignardi, scrittrice, giornalista e conduttrice, a ilLibraio.it racconta temi e vicende legate al suo ultimo romanzo, “Oggi faccio azzurro”. Parla, tra le altre cose, del suo rapporto con la scrittura e delle esperienze che le hanno permesso di conoscere meglio il mondo del carcere, “dove tutto ciò che conta è in primo piano, e riluce, o per assenza, perché quella cosa è negata, come la libertà e l’amore o la bellezza, o per presenza, come ad esempio l’umanità e il dramma delle storie delle persone che lo abitano”. E infine la difficoltà di portare i libri in televisione: “Non è scontato che un autore sappia raccontare. Magari è uno scrittore bravissimo ma è timido, o introverso” – L’intervista

Oggi faccio azzurro (Mondadori) è il settimo libro di Daria Bignardi, scrittrice, autrice tv e giornalista. Bignardi, che ha esordito nel 2009 con il memoir Non vi lascerò orfani (con il quale ha vinto, tra gli altri, il Premio Elsa Morante per la narrativa) e i cui libri sono tradotti in molte lingue, in Oggi faccio azzurro tocca temi importanti come la separazione, il dolore della perdita, la dipendenza, il carcere e la solitudine. Argomenti narrati però tra le pieghe di incontri fortuiti, capaci di dare vita a legami ed amicizie che strappano un sorriso ai protagonisti e che offrono loro una finestra tramite la quale riuscire a riaffacciarsi di nuovo sull’azzurro e su nuove speranze.

ilLibraio.it ha raggiunto per telefono l’autrice, con cui ha parlato delle storie e dei protagonisti di Oggi faccio azzurro, di solidarietà femminile, delle esperienze che le hanno permesso di conoscere il mondo del carcere e del suo rapporto con la scrittura.

copertina oggi faccio azzurro

­Oggi faccio azzurro è un romanzo pieno di colore, a partire dal titolo e dal dipinto in copertina. Troviamo anche personaggi come Bianca, Rosa e Galla, che da piccola era soprannominata Gialla, l’accostamento del rosso e dell’azzurro che ritorna… Che significato hanno i colori in questa storia?
“Tutto nasce con Gabriele Münter. Vidi una sua mostra a Monaco di Baviera che mi colpì molto. Ero lì per presentare la versione tedesca de L’amore che ti meriti e ne avevo approfittato per incontrare Yvonne, un’amica tedesca. Avevo iniziato da un mese a scrivere quello che poi è diventato Oggi faccio azzurro, ma avevo in mente solo il personaggio di Galla, una donna alle prese con un abbandono incomprensibile e inaccettabile. Yvonne insistette per accompagnarmi alla Galleria Lenbachause a vedere la mostra della pittrice berlinese che era stata la compagna di Kandinskij. Quel giorno scoprii che Gabriele Münter e Kandinsij avevano moltissimo in comune con la storia che avevo in mente e da allora cominciai a sentire la voce di Gabriele, proprio come succede a Galla!”.

Cosa l’ha colpita?
“Come prima cosa il suo uso del colore. I suoi non sono quadri allegri, ma drammatici, anche quando dipingeva una natura morta o un paesaggio: ma i colori sono vivi e bellissimi. Sia nell’opera di Kandinsky sia in quella di Gabriele Munter l’uso del colore è fondamentale. Fu Kandinsky, negli anni in cui stava con la Munter, a teorizzare il senso psichico del colore, il fatto che la musica possa avere un colore, così come le emozioni. A quel punto ho cominciato a studiare le loro opere e la loro vita, e i loro colori sono diventati parte della mia opera. E poi le coincidenze tra la storia di Gabriele e quella di Galla sono impressionanti”.

Per esempio?
“Gabriele Münter e Kandinsky hanno vissuto un grande storia d’ amore e sono stati profondamente legati dal punto di vista artistico: due eventi indissolubili nella loro storia. Gabriele racconta a Galla, un po’ rinfacciandolo, che era stato negli anni in cui stava con lei che Kandinsky era diventato Kandinsky. Gli anni del Primo acquerello astratto, de Lo spirituale nell’arte, del Cavaliere Azzurro. Anche Galla conosce Doug per lavoro, e lo aiuta e lo sostiene per vent’anni. Kandinskij lascia Munter improvvisamente e senza spiegazioni, e dopo tre mesi sta già con un’altra donna, molto più giovane. La stessa cosa fa Doug con Galla. Ma mentre Galla difende il marito e si prende ogni colpa per la loro separazione, Gabriele, dopo cent’anni dall’accaduto, si prende la libertà di trattarlo come un vigliacco e un opportunista, nonostante continui a stimarlo come artista”.

Gabriele tratta Galla in modo rude, e volte è cattivella, ma in fondo la sprona. C’è nel loro rapporto un invito alla solidarietà femminile?
“Non direi un invito: per me la solidarietà femminile è scontata. Tra le donne – e anche tra le scrittrici- non c’è mai stata un’intesa complice come oggi. A volte basta un incontro e dopo pochi minuti si sta già parlando di tutto ciò che conta, di questioni intime come di letteratura. Io mi innamoro continuamente delle donne: due delle mie nuove amiche più care le ho incontrate negli ultimi anni, la scrittrice norvegese Hanne Østavick e la drammaturga Daria Deflorian. Ma mi divertiva che Gabriele Münter fosse così radicale, così estrema, anche un po’ scorretta, convinta di una lettura degli eventi che Galla sembra non aver mai preso in considerazione”.

Abbiamo citato Kandinsky e Münter, ma nel romanzo trovano un posto anche altri personaggi del passato: la protagonista prende il nome da Galla Placidia, e poi c’è Rosa Luxemburg.
“I tre protagonisti ruotano attorno allo studio di una psicanalista, e in ognuno di loro vive una sorta di ossessione. L’ossessione di Galla è Gabriele, quella di Nicola è Rosa Luxemburg (nei confronti della quale è anche molto critico) e l’ossessione di Bianca è il rapper XXXTentacion. È come se questi personaggi si fossero imposti: quello di Rosa Luxemburg è significativo anche ripetto al tema del carcere, in cui ha passato molti anni e dal quale scriveva lettere meravigliose. Rosa Luxemburg aveva un approccio all’amore molto passionale, che non è scontato se si leggono solo i suoi scritti politici.

E XXXTentacion?
“Ho messo in esergo la citazione di una sua canzone (The remedy for a broken heart), ipnotica e assolutista, come l’azzurro che Kandinsky diceva che tanto più è scuro tanto più attira nell’infinito e nella nostalgia per la purezza. Tutti questi personaggi hanno una parte di loro che è come sedotta, visceralmente chiamata dalle loro relazioni. Di che cosa parliamo quando parliamo d’amore, come scriveva Carver, forse non lo sapremo mai. Ognuno dei personaggi ha una sua resistenza o predisposizione: quello dell’amore e del posto che gli diamo nelle nostre vite rimane un tema misterioso, e come tutti gli enigmi dissemina segnali per essere risolto. Quindi i colori, i personaggi storici, XXXTentacion, sono tutti, se vuoi, degli elementi che servono non so se a risolvere quell’enigma ma almeno a provarci”.

Veniamo al tema del carcere, di cui Galla fa esperienza, ma che tocca anche Bianca e Nicola.
“Galla fa esperienza del carcere del tutto casualmente, grazie al suo vicino di casa, che si rende conto che lei sta male, e le chiede di entrare a far parte del coro del carcere, perché mancano le voci femminili, che sono fondamentali. È un coro di detenuti tossicodipendenti, quindi è un reparto con delle regole particolari in cui detenuti hanno la possibilità di avere delle terapie di sostegno, una delle quali è il coro. Galla va, come fanno quelli che magari sono così disperati che non sanno a che santo votarsi. E però lì si sente meglio, capisce che lì dentro c’è qualcosa che ha a che fare con lei. A me non piace psicoanalizzare i miei personaggi…”.

Ma?
“Mi sembra che per Galla ci siano gli elementi per parlare di una dipendenza affettiva. È vero che per chiunque un divorzio è molto doloroso, ma lei sembra paralizzata da questo evento. E forse per questo si trova così bene con i detenuti, i quali a loro volta non sono lì dentro per caso. Tutte le voci di questa storia si parlano e dicono qualcosa gli uni degli altri. Il coro è anche un coro di voci attorno al tema dell’amore e della dipendenza affettiva quanto della dipendenza dalla droga. Dietro a ognuna di queste sofferenze, a cominciare da quella del rapper Tentacion, forse c’era altro. Quel verso Why am I so in love lo canta con una tale disperazione…si sente che si sta chiedendo cosà c’è dietro ciò che prova… Molti dei personaggi del romanzo stanno cercando di capire come governare la loro vita”.

Anche lei come Galla ha frequentato il coro del carcere. Nel libro conosciamo quest’esperienza attraverso gli occhi di Galla, come è stata la sua?
“In fondo si parla sempre di cose che si conoscono, più o meno da vicino, più o meno profondamente. Un romanzo può nascere anche da una frase sentita in tram, se è una bella frase. Se ti si impiglia nella memoria è perchè ti riguarda. Sono circa vent’anni anni che frequento il carcere, soprattutto quello di San Vittore, ho fatto tanti diversi lavori con i detenuti, gli ho anche affidato una rubrica su un mensile che diressi nel 2002. Il carcere è un mondo dove tutto ciò che conta è in primo piano, e riluce, o per assenza, perché quella cosa è negata, come la libertà e l’amore o la bellezza, o per presenza, come ad esempio l’umanità e il dramma delle storie delle persone che lo abitano”.

Un mondo parallelo.
“Qui a Milano è così evidente: il carcere San Vittore è proprio al centro della città, in una zona ricca ed elegante, due mondi che sembrano non comunicare affatto ma sono fisicamente vicinissimi, separati solo da alte mura. Sono sempre stata attratta da quel che viene nascosto da un muro: quando ero ragazzina mi scrivevo con un condannato a morte americano, che purtroppo poi è stato ucciso. Non uso il termine ‘giustiziato’, perché non credo che ci sia nessuna giustizia nell’uccidere una persona. Frequentare il carcere, per me, non ha nulla a che fare col voler fare del bene, il bene l’hanno fatto sempre loro a me”.

Oggi faccio azzurro è il suo sesto romanzo e settimo libro, però lei si è occupata di tante cose nella vita: giornalismo, radio, televisione, teatro… di quale di queste attività non potrebbe fare a meno?
“Da parecchi anni ho capito di essere una scrittrice che ha fatto, e a volte fa ancora, la giornalista e la conduttrice, non il contrario. Quindi non potrei fare a meno di scrivere libri”.

Cosa le dà la scrittura?
“È un’avventura così piena, quella della scrittura, anche se il tempo della scrittura è un tempo solitario. È l’avventura in cui mi sembra di riuscire a esprimermi più a fondo, più autenticamente. I miei romanzi sono lì, e dopo tanti anni sono sempre vivi, pronti ad accogliere i loro lettori, che fanno propri i personaggi e le storie che ho creato per loro. È una condivisione bellissima.”

Cosa cambia nel lavoro televisivo?
“La cosa più bella del lavoro televisivo è il lavorare insieme, confrontarsi, scambiarsi idee. Le idee migliori vengono sempre a pranzo e non in riunione. Io ho un gruppo di lavoro bellissimo, eccezionale, costruito e curato negli anni con molto amore e molta attenzione e anche rigore. Mi diverto molto coi miei colleghi. Se non ci fosse la fatica di condurre lo farei più spesso di quanto non lo faccia, ormai pochi mesi l’anno. Invece il lavoro dello scrittore, come diceva Tabucchi, è soprattutto una questione, solitaria, di sedia e di mal di schiena.”

A proposito di interviste, si è da poco chiusa la stagione 2020 de L’Assedio. Un programma in cui c’è molta varietà tra gli intervistati, ma che spesso vede al centro scrittrici e scrittori. Cosa significa portare i libri in televisione nel 2020?
“Non è facilissimo, e lo dico da scrittrice. Per fortuna alla fine qualcosa resta, magari anche solo una frase che illumina proprio quello che aveva senso illuminare rispetto all’opera, ma non è scontato che ci si riesca”.

Perché?
“Bè perchè non è scontato che uno scrittore sappia raccontare. Magari è uno scrittore bravissimo ma è timido, o introverso. Magari in un’intervista di mezz’ora solo pochi secondi corrispondono all’avventura che il lettore farà leggendo il libro. Io quando parlo dei miei libri provo sempre un senso di impotenza. Per fortuna, al settimo libro, ormai i miei lettori mi conoscono, mi aspettano, e qualunque scemenza o banalità retorica o impacciata possa dire riguardo ai miei romanzi loro conoscono la mia vera voce. Ecco, la voce non la racconti, non la spieghi. Ha a che fare col tuo modo di scrivere, e con il tuo sguardo. Puoi solo leggerla”.

La speranza, infatti, è sempre che l’intervista conduca alla lettura del libro.
“Certo, ed è una cosa difficilissima. Per fortuna succede quasi sempre che dalla rete delle tue parole esce da un buco che si è formato per caso o per errore un pesciolino argentato, che va incontro al lettore guizzando, lo emoziona, gli parla, gli fa venir voglia di leggerti”.

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Fotografia header: Julian Hargreaves

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