Teju Cole, autore e fotografo di origine nigeriana, cresciuto negli Stati Uniti, è considerato una delle voci più originali del panorama culturale internazionale. ilLibraio.it lo ha incontrato in occasione dell’uscita de “L’estraneo e il noto”: “Le fotografie sono talismani per il lutto. È una sorta di miracolo quello che compiono, penso sia per questo che molti scrittori ancora le considerino qualcosa di mistico”. L’artista parla del suo rapporto con la cultura italiana (“Gli scatti di Luigi Ghirri e Guido Guidi hanno avuto un grande ascendente sul mio modo di pensare e sul mio lavoro”, “Italo Calvino e Primo Levi hanno influito sulla mia scrittura”), ma nota anche, riferendosi al nostro Paese, “la scarsa presenza delle donne nei festival e nelle riviste”. Spazio, tra le altre cose, alla riflessione sul rapporto tra immagini e social network, alla passione per la poesia, alla categoria “autore nero” in cui spesso viene inserito (“Creando questo ghetto la percezione è che ci siano più scrittori neri…”) e agli obiettivi per il futuro: “Voglio andare oltre gli aspetti visivi e concentrarmi, per esempio, su quelli acustici, sull’udito, su come il suono sia in grado di creare la sua forma e la sua consistenza. Non sono in molti ad aver scritto a riguardo, sul suono degli spazi e su quello delle esperienze” – L’intervista
“Mi sento il custode di un corpo nero, e devo trovare il linguaggio per tradurre cosa significa”. Un linguaggio fatto di parole e di fotografie. Ma forse, d’ora in avanti, anche di altri sensi. Teju Cole, autore e fotografo di origine nigeriana, cresciuto negli Stati Uniti, è considerato una delle voci più originali e potenti del panorama culturale internazionale. Espressione di quell’orgoglio nero che anche in musica e nelle arti figurative sembra andare per la maggiore (su qualche numero fa de L’Espresso se ne discuteva), ma in realtà lo supera. Sì, perché, pur elevando il suo retaggio africano, i grandi maestri dell’Occidente, passati e contemporanei, sono entrati con naturalezza nel suo lavoro: “Sono felice di possedere tutto”, scrive.
Ed ecco che in L’estraneo e il noto. Entusiasmi, incontri, letture, fotografie (edito da Contrasto; traduzione di Gioia Guerzoni) troviamo poeti e fotografi alternarsi in una raccolta di saggi e articoli redatti negli ultimi anni, che danno spazio a fonti di ispirazione e a esperienze illuminanti. Non è un caso che il volume sia diviso in due parti: Leggere e Vedere che fanno da contraltare teorico a quanto Cole aveva realizzato in quel diario visivo che è Punto d’ombra (edito sempre da Contrasto) in cui parole e immagini, scrittura e fotografia sono le uniche protagoniste.
Truth is beauty. Beauty is truth scriveva John Keats. Sembrano echeggiare da molto lontano i versi del poeta britannico mentre proliferano immagini belle, ma giudicate noiose come quelle di Steve McCurry (criticato da Cole) e in generale quelle pubblicate sui social network che bramano la perfezione estetica, sebbene manipolata dai filtri, più della verità.
Nuovi strumenti per antichi dilemmi. Che si presentano subito, fin dall’inizio di quest’intervista per ilLibraio.it mentre prepariamo quaderno e registratori. “Quando intervisto le persone non uso il registratore, perché credo di ottenere di più nel prendere appunti”.
Non teme di perdersi qualcosa, anche solo la possibilità di guardare l’interlocutore negli occhi?
“Gabriel García Márquez sosteneva: ‘Odio i registratori perché, senza, il giornalista annota le parti più importanti. Invece quelle macchine memorizzano anche le cose più stupide che dici’. E poi sono convinto che quando scrivi in realtà vedi di più”.
Proprio con la volontà di vedere qualcosa in più, qualche giorno fa mi trovavo alla Public Library di New York. Nel cercare i suoi libri ho notato che erano sotto la categoria: “black author”. Si riconosce in questa definizione?
“Quando penso alla determinazione sociale, a come veniamo categorizzati come persone, mi rendo conto che la storia non è rigida, non può esserlo. Non può essere solo un insieme di leggi che si adattano a tutti lungo una strada tracciata. Ad esempio, non possiamo dire, visto che siamo contrari al razzismo da un punto di vista etico e morale, che il mio colore o il suo colore della pelle non abbiano alcun significato. Sebbene una categorizzazione in base a questo possa apparire offensiva o limitante, in realtà siamo tutti parte di storie e tradizioni che hanno importanza e ci influenzano. Storie intese non come passato, ma come dna che condiziona il presente”.
È inevitabile, dunque?
“Sebbene non sia la definizione che preferisco quella di ‘autore nero’, so che è legata a una scarsa rappresentazione di alcune categorie di scrittori. Nella storia degli Stati Uniti non vediamo una sola razza, eppure i libri che troviamo in biblioteca appartengono nello 0,01% ad autori neri. Gli afroamericani sono il 12-15% della popolazione. Creando questo ghetto, questa classificazione, la percezione è che ci siano più scrittori neri, perché li rende più visibili”.
E avviene anche per altre categorie?
“Beh, è un po’ quello che ho notato qui in Italia rispetto alla scarsa presenza delle donne nei festival e nelle riviste. In tal senso la situazione negli Stati Uniti non è buona, ma qui in Italia mi sembra peggiore”.
In effetti c’è una sotto-rappresentazione. È significativo che lei, in alcuni giorni qui in Italia, lo faccia notare.
“Sì, mi sono trovato in presentazioni in cui eravamo dieci autori e nessuna donna. Eppure, da situazioni come questa si possono creare nuove opportunità”.
Come nel suo caso. Corpo nero e La nerità della pantera aprono e chiudono la sua raccolta. Lei scrive: “Nel mio percorso per diventare africano, ho anche cominciato a diventare nero, viaggio che si è rivelato molto più complicato”.
“L’essere africano deriva dal fatto che io sono nato in Africa e ci ho vissuto, è il mio retaggio culturale. L’essere nero, invece, deriva dalla percezione che hanno gli altri, ed è emerso quando sono arrivato negli Stati Uniti. È dovuto a una questione di contrasto rispetto a bianchi, mulatti o cinesi. È stato quindi allora che ho affrontato il tema della razza o del colore a cui appartengo. Quando mi sono trasferito in America ero come neutrale rispetto a questo tema. Poi tutto è cambiato”.
Sasabe, Arizona, settembre 2011 – Teju Cole
“Nella nerità ho imparato il nero e il diverso”, afferma. E ancora: “Non esiste un mondo in cui cederei la bellezza minacciosa della poesia in lingua Yoruba per, mettiamo, i sonetti di Shakespeare, o in cui preferirei le orchestre da camera di Brandeburgo alle kora del Mali. Sono felice di possedere tutto”. Non solo orgoglio nero, dunque.
“No, assolutamente. È una specie di indipendenza sociale, di solidarietà con gli altri ovunque ci si trovi. Ed è ciò che realmente conta. È anche un modo per essere liberi in generale: così posso mangiare cibo africano o cibo giapponese e li posso apprezzare entrambi. Posso ascoltare diversi generi di musica africana ed europea e godermeli. Penso che la vita sia troppo breve per non cogliere tutti i diversi stimoli che riceviamo lungo la strada”.
A proposito di stimoli, il suo stile di scrittura è ricco di immagini, di sguardi, di elementi visivi. Per non parlare della sua attività di fotografo. È questo il modo in cui lei legge il mondo? Attraverso la vista…
“La vista è sicuramente il mio modo di stare al mondo. Eppure c’è un pregiudizio rispetto al significato che diamo alla vista e al modo in cui la facciamo nostra. E questo mi preoccupa un po’ perché non voglio che ci dimentichiamo degli altri sensi. È vero che la vista ha avuto un fortissimo ruolo nel mio modo di lavorare. Ora tuttavia voglio andare oltre gli aspetti visivi e concentrarmi, per esempio, su quelli acustici, sull’udito, su come il suono sia in grado di creare la sua forma e la sua consistenza. Non sono in molti ad aver scritto a riguardo, sul suono degli spazi e su quello delle esperienze”.
Zurigo, luglio 2015. Teju Cole
Che cosa intende?
“Se ora lei chiude gli occhi, e questo è necessario per focalizzarsi meglio altrimenti tendiamo a privilegiare gli stimoli della vista, all’inizio sentirà la musica, questo soul jazz tipico degli alberghi. Ma se continua ad ascoltare e a fare attenzione, scorgerà l’eco di questa grande hall, delle voci distanti, dei passi. E più si ascolta più strati iniziano a formarsi, fino a comporre una fotografia, sebbene più complessa nel presentarsi, di quella scaturita dagli occhi. È qualcosa di molto stimolante per me e voglio portare avanti questo discorso anche per gli altri sensi: il tatto, l’olfatto e così via. La vista è importante, ma non è l’unica”.
Lei sostiene che la scrittura e la fotografia garantiscono l’una per l’altra “ma, a differenza delle parole, spesso si presume che le immagini siano imparziali”. Eppure proliferano fake news suffragate da foto manipolate. Come facciamo allora a identificare la verità?
“Penso che di primo acchito abbiamo un’attitudine allo scetticismo, a non prendere per buono ciò che ci viene comunicato. Molto è frutto di uno sfogo che ha cause ed effetti di natura politica. In questo senso per me, come fotografo e scrittore, ha molto valore insegnare alla gente a leggere le immagini, a essere scettici e a domandarsi sempre che cosa si sta guardando. Niente può essere dato per certo, ma se si pongono le giuste domande, queste possono essere illuminanti”.
John Berger in Sul guardare, a proposito delle immagini strazianti della guerra in Vietnam pubblicate sui giornali, si chiede quale effetto producano. La reazione secondo lui è limitata poiché “la duplice violenza del momento fotografato ci impedisce una vera presa di coscienza”. Ma allora è giusto comunque pubblicarle?
“È difficile dire se sia giusto o meno. Credo che ci siano due possibili conseguenze: in una le immagini ti possono condurre a uno specifico cambiamento in ambito politico, come nel caso di Aylan Kurdi la cui foto riverso sulla spiaggia ha aiutato a scuotere le coscienze e a pretendere una reazione politica, così come nel caso degli scatti dei bambini messicani separati dai propri genitori. Questo è accaduto, ma nella maggior parte dei casi vengono pubblicate sui giornali foto di atrocità, crimini e sofferenze e nulla cambia”.
Ha quindi ragione Berger: la loro efficacia è limitata?
“Noi consumiamo queste immagini, ma non necessariamente servono a risolvere un particolare problema politico. Credo però che creino un’atmosfera generale di testimonianza: le fotografie ci aiutano per prima cosa a capire che ciò che stiamo guardando è stato visto da qualcuno e, dall’altro lato, ci fanno scoprire la sensazione di essere visti, che c’è un testimone di ciò che ci sta accadendo. Questo aspetto può essere cruciale per coloro che vivono una situazione terribile”.
La fotografia come sinonimo di testimonianza, quindi.
“È proprio così. Non dimentichiamo però che tutto questo ci espone anche a dei rischi: innescano una rete di responsabilità tra il fotografo e ciò che noi vediamo nella sua fotografia. Io stesso ne sono coinvolto. Il pericolo, nel guardare immagini di estrema sofferenza, è di incorrere in una forma di pornografia”.
Questo pericolo, sebbene con un tenore diverso di scatti, emerge con prepotenza sui social network. Lei usa Instagram e il suo profilo è ricco di quadri, di foto di pigmenti che oltrepassano la materia. Un uso singolare di questo mezzo per un fotografo.
“Credo molto nella pittura e mi piace guardarla. Sì, forse è un approccio un po’ fuori moda, ma come ci ha insegnato l’astrattismo, la pittura in sé può essere molto potente. Con i social network le immagini ambiscono a occupare uno spazio in un tempo molto complicato politicamente, uno spazio al di sotto del quale posso scrivere qualcosa che abbia a che fare con l’ospitalità o l’esclusione. Oppure posso non scrivere niente e occupare semplicemente quello spazio dell’etere con una foto. Sono entrambe espressioni del mio essere virtuale, qui e ora”.
Nel rapporto tra parole e fotografia, nel suo libro precedente, Punto d’ombra, scriveva: “Ogni singolo verso di ogni singola poesia è la didascalia orfana di una fotografia smarrita. Secondo una logica pertinente, ogni fotografia si trova nell’anticamera della parola”. Sembra la perfetta sintesi tra queste due forme d’arte…
“Questa citazione è un’espressione poetica. Per me la poesia ha avuto un ruolo centrale, in particolare riguardo agli aspetti visivi. Una fotografia è in grado di catturare un istante speciale della vita, descrive quel momento e con esso la sublimità della presenza materica attraverso una forma visiva in un dato attimo. La poesia, al suo migliore grado, può offrire una descrizione di tutti questi momenti e di tutti i sensi insieme, perché il suo compito è di renderci coscienti di essere degli esseri umani, di stare al mondo”.
Per questo ci sono i riferimenti a tanti poeti in questo libro: Heaney, Walcott, Tranströmer, Rilke…
“Sì, molti, e sono stati fondamentali per il mio modo di pensare”.
Lei cita anche numerosi artisti italiani, ad esempio nel modo in cui guarda alla pittura che si ispira a Vittorio Imbriani, e poi a registi come Antonioni e Fellini, o a fotografi come Ghirri e Guidi. Come mai l’Italia?
“Beh, ho avuto una buona educazione occidentale e mi ha sempre affascinato la cultura italiana. Certo, il fatto che negli ultimi cinque anni sia stato varie volte in questo Paese ha fatto crescere le influenze. Fotografi come Luigi Ghirri e Guido Guidi hanno avuto un grande ascendente sul mio modo di pensare e sul mio lavoro. Molte mie foto hanno un’attitudine ghirriesca. Italo Calvino e Primo Levi hanno influito sulla mia scrittura. In questa raccolta si trovano poi diversi autori tedeschi, irlandesi e inglesi: ciò che conta per me è riscontrare la somiglianza con gli artisti del passato e contemporanei, affinché mi possano aiutare a migliorare ciò che faccio”.
Tra coloro che invece critica vi sono fotografi molto popolari come Steve McCurry le cui immagini, in posa o scattate come se lo fossero, lei reputa noiose. La fotografia moderna non è in grado di raccontare appieno la realtà?
“È difficile, in un momento storico in cui c’è il proliferare di WhatsApp e Facebook, dei video, e delle storie di Instagram, pensare che la fotografia non sia altro che produrre delle belle immagini, piuttosto che testimoniare con forza la realtà. Nonostante tutto ciò, la fotografia come testimonianza continua a restare molto potente. Catturare il momento ci fornisce una sorta di ormeggio a cui aggrapparci, a cui ancorare i nostri pensieri in quella particolare situazione. Per questo continuo a credere che quest’arte sia davvero importante, anche se può essere falsificata, ignorata o, più semplicemente, ce n’è troppa. La fotografia avrà sempre una relazione con la verità che potrà fare la differenza nella vita delle persone”.
Roland Barthes nel suo saggio sulla fotografia, La camera chiara, afferma che “in una fotografia non c’è niente di proustiano”, non è come la madeleine che riporta al passato, quanto più come la Sindone: “ha qualcosa a che vedere con la resurrezione”, è acheropita. Anche lei utilizza questo termine nel libro…
“La fotografia non è solo memoria. C’è molto di trascendentale in essa. La luce scrive se stessa in un istante specifico e crea un’immagine che evoca unicamente quel momento. Ogni persona che ci sopravvive ne è un esempio. Anche se una persona è morta, continua a essere lì, immortalata in quell’attimo preciso. Ne parlo nel capitolo dedicato a mia nonna o in L’aldilà digitale delle foto di famiglia: le fotografie sono talismani per il lutto. È una sorta di miracolo quello compiuto dalla fotografia. E penso sia per questo che molti scrittori la considerino ancora qualcosa di mistico”.
nota: la foto grande di Teju Cole è di © Martin Lengemann