In “Io sono Una”, con un tratto essenziale che si alterna a immagini simboliche ed evocative, l’artista inglese Una ripercorre il dramma della lotta per l’affermazione di sé e della dignità di una vittima di violenza sessuale infantile, contestualizzata nella cornice di desolante misoginia degli anni Settanta – L’approfondimento

Accade che, se perpetrate per lungo tempo, si finisca con l’abituarsi a convivere con le minacce peggiori, percependole lì, vive, ma non più allarmanti. Affrontare oggi un tema come quello della violenza sulle donne, dopo decenni di lotte femministe e rivendicazioni di genere, andando oltre i convenzionali schemi comunicativi esplorati con la necessità di evidenziarne l’attualità, non è impresa facile.

Come far sì, allora, che una storia di violenza individuale scavalchi il muro di indifferenza della sua singolarità per assumere una dimensione universale?

Io sono Una

La risposta è nota a tutti: attraverso l’arte. Lo sapeva già nel Seicento Artemisia Gentileschi, quando a soli diciassette anni dipinse una Giuditta emblema di un dolore personale senza giustizia. E non è un caso che proprio quest’opera trovi spazio tra le pagine di Io sono Una (Add editore, titolo originale: Becoming Unbecoming) dell’artista inglese Una.

Con un tratto essenziale che si alterna a immagini, il più delle volte protagoniste di una pagina intera, straordinariamente simboliche ed evocative, l’autrice ripercorre il dramma della lotta per l’affermazione di sé e della propria dignità di una vittima di violenza sessuale infantile, contestualizzata nella cornice di desolante misoginia e ignoranza degli anni Settanta. È il periodo in cui il punk comincia a imporsi sui palchi con la sua carica rivoluzionaria, ma anche quello in cui, ad alcune donne, la sola libertà di essere normale – una Blondie, più che una delle Slits – è negata. È l’epoca, paradossale, in cui i plurimi omicidi commessi dallo squartatore dello Yorkshire vengono giustificati dall’opinione pubblica sulla base della presunta non-innocenza delle vittime (prostitute): gli anni in cui il solo fatto di essere donna diventa una buona motivazione per aver paura.

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Il percorso della protagonista della storia è tortuoso, fatto di salite e discese, in cui bisogna “correre e strisciare attraverso spazi ristretti” – il cui senso di claustrofobia è perfettamente reso dall’uso della scala di grigi – perennemente in fuga dall’”uomo nell’ombra”.

Compagna di quello che sembra un interminabile viaggio è la zavorra più pesante di tutte, il vuoto del non detto, ancora più schiacciante quando si arranca sulla marea delle parole altrui (notiziari e giornali soprattutto): “In qualunque modo guardassi la cosa, sembrava che fossi sia la causa sia l’effetto del problema. Un problema che non poteva essere nominato. Sapevo che non era così, ma era fuori dal mio controllo. […] Le parole mi avevano abbandonata”.

Crescere, approdare a quel “senno di poi [che] è una cosa meravigliosa”, è un processo doloroso che comporta una metamorfosi: la simbologia classica del bozzolo che si schiude è evocata in tavole molto belle e nettamente distinte per tratto e stile dalle altre, in cui l’elemento delle ali che “non sembravano funzionare molto bene” diventa un altro ingrediente iconico del tortuoso percorso di elaborazione del trauma.

Con un tono che rifugge dalla pedanteria e dall’ostentazione del dolore fine a se stessa, Una invita i lettori a riflettere, dati alla mano, sui temi della discriminazione e della violenza, ma soprattutto sulle dinamiche sociali che queste innestano. Perché il silenzio rimane la reazione più comune? E perché questo silenzio, quando faticosamente spezzato, diventa sinonimo di disagio e schizofrenia? Perché, in sintesi, l’emarginazione sembra essere l’unico esito possibile di un’esperienza traumatica, confessata o meno? “Dov’è la giustizia?”.

La storia dello squartatore dello Yorkshire ha un tardo e inaspettato lieto fine. Quello della condizione femminile non del tutto: di fronte all’arma a doppio taglio del web, che da una parte permette l’ostentazione della più bieca misoginia e dall’altra la costruzione di una rete di solidarietà femminile, per le ragazze sessualmente sfruttate non è facile ottenere giustizia oggi come negli anni Settanta.

“Ci sono fin troppi libri sul dolore – e troppo dolore”: in qualche modo, però, nelle tavole finali il colore torna in maniera più frequente a spezzare il grigio della narrazione. Sprazzi sporadici, simbolici, che aprono la strada alla galleria di ritratti femminili: ultima nota commovente di una testimonianza grafica che definisce se stessa come omaggio alla “forza sovrumana” dei sopravvissuti.

 

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