“L’ultima sirena”, romanzo d’esordio della finlandese Iida Turpeinen, attraversa tre secoli di storia per raccontare l’incredibile scoperta di una creatura marina mai vista prima, e la storia degli uomini e delle donne le cui vite sono state segnate da questo incontro. Una dimostrazione della bellezza e della forza della natura, opposta alla distruzione che accompagna l’umanità…
Neri Pozza pubblica un romanzo ammaliante: L’ultima sirena di Iida Turpeinen. Al contrario di quello che potrebbe suggerire il titolo, non racconta di creature fantastiche, ma di ciò che realmente accadde alla Ritina di Steller. Un sirenide della famiglia dei lamantini o dei dugongo, una specie ormai perduta, della cui esistenza si ebbe certezza solo a metà del XIX Secolo.
Ma facciamo un passo indietro. Nel 1741, il naturalista e teologo Georg Wilhelm Steller si imbarca in un’impresa disperata. Una spedizione nei mari del Nord, sulla rotta tra il continente asiatico e quello americano.
La mania del cartografare terre inesplorate, la promessa di ricchezze e fama, la scoperta di nuovi insediamenti umani erano leve inaffondabili per spronare all’azione uomini come Vitus Jonassen Bering, che infatti diede il nome non solo allo Stretto, da lui per la prima volta navigato nel 1728, ma anche all’omonima Isola, presso la quale trovò la morte in condizioni estreme nel dicembre del 1741.
Ma Steller non era interessato a nulla di tutto ciò. Steller amava contemplare il creato, animali visti come tramite della potenza di Dio.
Non trovava nessun tipo di contraddizione tra il porre il suo interesse scientifico nello studio di creature meccanicamente diverse da noi e il fatto che esse fossero indubitabilmente emanazione di un’entità creatrice, che aveva posto l’accento della perfezione in ogni sua diretta emanazione. D’altra parte, Darwin e la sua teoria dell’evoluzione erano molto di là da venire.
Ma ciò che più Steller desiderava era scoprire una creatura mai registrata nelle Naturalis Historiae di tutto il mondo. Forse per fortuna, o forse per una poco scientifica forma di compensazione del destino, fu accontentato. E fu così che, dopo uno sbarco di fortuna su un’isola deserta di insediamenti umani e veramente inospitale, Steller scoprì un curioso animale. Una vacca di mare, come egli stesso la definì, probabilmente il mammifero marino più grande mai esistito in epoca storica. Per trovare qualcosa di simile si doveva infatti risalire al Cretaceo. Stime recenti calcolano che gli esemplari più grandi potevano raggiungere gli 8 metri di lunghezza e i 10mila kg di peso.
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Purtroppo le ritine di Steller avevano un difetto, una carne saporita e molto calorica e un’estrema facilità di caccia. Non essendo mai venute a contatto con l’uomo, non sapevano riconoscerne la pericolosità. Questo le aveva rese prede davvero irresistibili per un manipolo di reduci disperati ed errabondi e fu così che, nell’anno successivo, quando la spedizione lasciò l’isola, il gruppo di duemila esemplari era stato già decimato.
Ma non ancora estinto. La sua estinzione avvenne con le spedizioni successive, quando, con la caccia alle colonie di lontre sull’isola allo scopo di commerciarne le pelli pregiate, si ebbe una crescita esponenziale dei ricci di mare (il piatto preferito dalle lontre), che a loro volta furono causa del dimezzamento della colonia di alghe, piatto principale delle ritine di Steller.
Si dovette poi aspettare il secolo successivo, e precisamente il 1861, perché lo scheletro della vacca di mare facesse la sua comparsa nella collezione di Alexander von Nordmann, Professore di zoologia a Helsinki, per poi essere riportato in Finlandia a metà del Novecento da John Grönvall, restauratore presso il Museo di storia naturale, dove attualmente è possibile ammirarlo.
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Fino a qui la storia. Ma è la maestria linguistica e l’inconsueto connubio di competenza letteraria e scientifica a rendere la scrittura di Iida Turpeinen così speciale.
E insieme, le riflessioni che scaturiscono da questa ipnosi che riesce a ricreare. Che posto occupa l’uomo nel mondo, dove si può arrestare la nostra sete di conoscenza, si può fermare di fronte al dolore inferto ad altre specie. Si possono considerare sacrificabili fino all’estinzione individui composti di massa, nervi, un apparato nervoso, forse un meccanismo che riproduce memorie e affetti, per favorire la nostra misura del mondo. E quante di queste estinzioni guideranno poi il vertice di questa catena, cioè noi, a estinguerci a nostra volta.
Un romanzo che è stato, comprensibilmente, tra quelli più venduti all’ultima Fiera di Francoforte, nella mirabile traduzione dal finlandese di Nicola Rainò.
Se avrete la pazienza di leggere questo estratto fino in fondo, capirete perché ciò che scrive Iida Turpeinen è un connubio non solo auspicabile, ma anche ormai doveroso, di umanesimo e scienza, da esportare addirittura nelle scuole, dove il fascino di alcune meraviglie si può ancora scoprire con occhi pieni di stupore:
La vita si sviluppa a partire dalla cellula embrionale, dai composti accumulatisi all’interno della vescicola. Gli archei e i batteri si scindono a due a due e riempiono il mare, le alghe blu iniziano ad assorbire la luce producendo l’ossigeno nell’atmosfera. L’ossigeno elimina i gas tossici formando una coltre di ozono intorno al globo. L’atmosfera cambia e si susseguono le estinzioni, ma le cellule rimaste utilizzano l’ossigeno e iniziano a respirare.
All’inizio, le forme di vita sono unicellulari. La specie sopravvive per scissione, ma poi le singole parti si uniscono, lle cellule iniziano a condividere i compiti e gli esseri viventi, ora pluricellulari, si accrescono. I primi organismi pluricellulari sono i poriferi, una massa molle priva di organi specializzati, di sistema nervoso o apparato digestivo, ma lentamente nei mari compaiono creature bivalvi, il cui corpo si divide in due metà simmetriche, e ben presto sulla faccia dei platelminti compaiono i primi occhi del mondo.
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Le innovazioni dei vermi non si fermano qui. I loro discendenti elaboreranno un sistema digestivo che attraversa il corpo, con orifizi diversi per ingoiare il cibo e per espellere gli scarti. Questa innovazione permette loro di mangiare ininterrottamente e presto il mare pullula di vita. Sotto le onde compaiono molluschi, echinodermi, spugne, invertebrati e agnati. Attraverso il gamete, nelle profondità del mare primordiale, avviene il primo atto sessuale nella storia del mondo. I viventi si moltiplicano, riempiono i mari, e forme vegetali e spugnose iniziano a cercare habitat più accoglienti, a strisciare fuori dall’acqua, e licopodi, equiseti e felci ricoprono la terra.
I pesci che vivono nelle acque basse e nelle paludi imparano a respirare aria. Uno sviluppo intelligente che permette loro di strisciare da uno stagno all’altro, spostandosi nelle pozze lasciate dalla marea per sfuggire ai predatori marini corazzati.
Nell’acqua bassa imparano a usare le pinne, avanzando sul fondale a passi alternati, gli arti diventano muscolosi, polsi e gomiti si rafforzano. Al posto degli opercoli branchiali si forma un collo e alla fine hanno polmoni, gomiti, ginocchia, polsi, dita, collo e narici: tutto ciò che serve per la vita al di sopra della superficie, e il pesce è pronto a spingersi sulla terraferma. I pesci emergono dagli stagni. Stanno imparando a trascinarsi sul terreno solido, ma non si allontanano mai dal mare, perché depongono ancora le uova nell’acqua. Nelle acque basse brulicano i girini. In queste creature, milioni di anni di storia evolutiva si condensano in un’unica vita: prima c’è il brodo primordiale, la gelatina dalla quale escono gli agili organismi acquatici, e quindi il girino sviluppa gli arti, si libera della coda e cambia le branchie coi polmoni, l’acqua col suolo, avverte il terreno solido sotto le pinne e si dà una spinta.
In tutta onestà, dove mai avete sentito parlare dell’evoluzione in questo modo?
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Fotografia header: Iida Turpeinen, nella foto di Susanna Kekkonen