Con “La dedica” Miriam Rebhun racconta la storia della sua famiglia (alla quale ha dedicato altri due libri) e di come, all’improvviso, abbia scoperto di avere una cugina, rimasta lontana in seguito alle vicende della Seconda guerra mondiale. Una storia piena di sofferenza e, allo stesso tempo, piena di gioia e di speranza, nella quale l’autrice celebra i legami familiari e la forza delle donne (vere protagoniste, con il loro coraggio)
Tutto comincia con una dedica: “Sono Daphna, ho settantasei anni e sono tua figlia“.
È un messaggio lasciato su una pagina web dedicata alla memoria di Kurt Emanuel Rebhun, detto Gughi, zio dell’autrice Miriam Rebhun. A trovarlo è sua nipote Noa.
“Ne sai qualcosa?”, domanda subito Noa alla zia, che alla storia della sua famiglia ha già dedicato due libri (Ho inciampato e non mi sono fatta male, 2011 e Due della Brigata, 2015, entrambi pubblicati da Belforte Salomone), ma Miriam non ne sa nulla, ha conosciuto gli altri figli dello zio Gughi, ma non ha mai sentito nominare alcuna Daphna, e la notizia la destabilizza: dopo aver dedicato vent’anni alla ricostruzione della propria vicenda familiare, scopre che quest’ultima potrebbe riservarle ancora delle sorprese.
La dedica, edito da Giuntina, è l’appassionante diario di viaggio di una scrittrice – testimone di seconda generazione – alla ricerca del ramo mancante del proprio albero genealogico, un’indagine che ripercorre la vita di suo padre Heinz e del gemello Gughi attraverso grandi distanze storiche e geografiche, dalla Shoah al tempo presente, da Haifa a Napoli e a Berlino, per figurarsi un futuro tutto all’insegna della sorellanza, che possa unire e non più dividere.
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Nati nella capitale tedesca, Heinz e Gughi sono stati costretti come molti altri giovani ebrei a imbarcarsi per la Palestina per sfuggire alle leggi razziali e al crescente clima di persecuzione in Europa. Hanno soltanto diciott’anni e non vedranno mai più i loro genitori. In Palestina scelgono di arruolarsi nella Brigata ebraica al seguito degli Alleati e, per la prima volta in vita loro, vengono divisi: Heinz è trasferito a Napoli dove conoscerà Luciana, la madre di Miriam, mentre Gughi viene mandato in Francia e poi in Grecia. I due gemelli, così simili da poter essere scambiati l’uno per l’altro, hanno in realtà un carattere opposto: Luciana definisce Gughi uno spiritoso, inquieto e imprevedibile “sciupafemmine”, e questo potrebbe spiegare non soltanto i figli avuti da relazioni diverse – entrati in contatto tra loro solo in seguito e grazie alle indagini di Miriam – ma anche l’improvvisa comparsa di una terza figlia che, a conti fatti, dovrebbe essere nata nello stesso anno dell’autrice.
Nonostante tutto parta dalle vicissitudini di Heinz e Gughi, sono le donne le vere protagoniste de La dedica, la forza motrice della narrazione. È grazie all’ostinazione tutta al femminile di Miriam, di Noah, della stessa Daphna e dell’amica piena di risorse Judith che la cugina viene finalmente rintracciata e la storia comune può essere ricostruita, ricordata, tramandata. Sono i loro sorrisi, gli sguardi, i gesti, i toni che permettono di superare le difficoltà linguistiche e le limitazioni tecnologiche, lasciando che nasca un nuovo affetto in un’età come quella dell’autrice – “l’età dei consuntivi” – in cui non è più così scontato.
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Ma soprattutto, a emergere nitido e vibrante è il ritratto di quattro ragazze coraggiose, le quattro donne che hanno partorito i figli di Heinz e Gughi, madri innamorate che – per motivi differenti – si sono ritrovare a crescere i loro figli da soli in un paese “instabile e pericoloso”. C’è Luciana, che senza il fascismo probabilmente avrebbe continuato i suoi studi al conservatorio di Napoli, sarebbe diventata una donna indipendente e non si sarebbe mai spostata ad Haifa; c’è Sima, la prima moglie di Gughi e madre di Ilana, morta quando la bambina aveva solo quattro anni; c’è Hanna, madre di Daphna, che sceglie di far nascere sua figlia nonostante l’abbandono di Gughi, difficile da giustificare; c’è Chaja, che prende subito il posto di Hanna nel cuore di Gughi, e si ritrova sola con Chanoch – l’unico figlio maschio, spesso sostituito nelle conversazioni tra cugini dalla moglie e dalle figlie.
Ed è così che, a distanza di decenni, parenti che abitano in città lontane e che non hanno avuto modo di vivere assieme l’infanzia si ritrovano a riviverla intensamente, senza gelosie né risentimenti, perché accumunati “dalla stessa condizione di orfani”.
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Quella che Rebhun ci consegna è una storia piena di sofferenza e, allo stesso tempo, piena di gioia e di speranza. La comparsa di Daphna avviene in un momento particolarmente difficile della vita dell’autrice, a due anni dalla morte del suo nipote più piccolo, ma proprio in un tempo così doloroso la dedica del titolo ha la capacità di riaccendere in lei il desiderio, le permette di cambiare prospettiva: trovare la cugina perduta diventa un progetto di felicità perché, nonostante appartenga al passato, si volge verso il futuro.
Il libro diventa così un’incredibile opportunità non solo per comprendere la propria storia personale e il suo inestricabile intreccio con la grande Storia, ma anche per comunicare ai propri figli e alle generazioni future quanto possano essere “forti e consolanti”, persino salvifici, i legami familiari.

Miriam Rebhun nella foto di Sara Gaudino
Con il suo tono intimo e una narrazione coinvolgente, La dedica ci spinge a riflettere sul valore della testimonianza e sull’importanza del racconto e della memoria, guidandoci – anello dopo anello – nella ricostruzione di una catena generazionale che la violenza storica e maschile ha diviso, ma che la sorellanza e la forza delle donne è riuscita a riunire.
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