“Ho sempre scritto di giovani, storie di formazione, di adolescenza. Invece qui, per la prima volta, ho affrontato personaggi adulti, feriti, disincantati. Come se avessi esaurito il discorso sulla giovinezza”. In occasione dell’uscita del romanzo “La felicità del lupo”, ilLibraio.it ha intervistato Paolo Cognetti, autore vincitore del Premio Strega 2017, con cui ha parlato della bellezza faticosa della montagna (“È vero, uno va a cercare il sole, la bella stagione, ma ciò che ricorda sono quella volta che ci si è persi, quella volta che si è caduti, quella volta che si è presi una nevicata o un temporale”), della solitudine (“non è come uno pensa, che la soffri sul lungo periodo. In realtà la soffri molto di più all’inizio e poi ti ci abitui”) e di nuovi esperimenti letterari da intraprendere (“una cosa che ho cominciato a fare solo con questo libro, ma che mi piacerebbe provare a portare avanti, è che i personaggi di una storia possano essere anche alberi, animali ed elementi del paesaggio, non solamente ben descritti, ma vivi, che vivono una loro storia”)

Paolo Cognetti è tornato in libreria con un nuovo romanzo di montagna, La felicità del lupo (Einaudi, 2021), che racconta con tenerezza una piccola – grande? – storia d’amore, quella tra Fausto e Silvia.

Lui ha quarant’anni, una separazione e una casa da vendere, lei ne ha ventisette, una gran voglia di esplorare e la necessità di elaborare un lutto. Ci sono poi Babette, la proprietaria di un ristorantino frequentato da montanari e occasionali turisti e Santorso, un burbero ex–forestale che guida i gatti delle nevi. A far loro da sfondo c’è Fontana Fredda, una paese di montagna, a 1800 metri sul livello del mare. Un luogo dimenticato anche da chi una volta ci abitava, frequentato da alcuni turisti che usufruiscono di una pista da sci non particolarmente emozionante.
E poi, che dire, poi c’è il lupo.

La copertina, di nuovo meravigliosa, di nuovo firmata da Nicola Magrin, ha in primo piano un bosco di pini alti, che tornerà nella storia di Cognetti, e dietro ai pini compaiono le montagne che si confondono con le nuvole, come travolte da una grande onda bianco–azzurra. Sembra voler richiamare le Trentasei vedute del monte Fuji di Hokusai, una raccolta di dipinti del celebre artista giapponese, che Silvia regala a Fausto prima di partire.

La felicità del lupo è un breve romanzo delicato, pieno di pensieri, riflessioni, pieno di natura, di selvaticità: una ventata di aria montana, gelida e allo stesso tempo energetica, vitale.

paolo cognetti la felicità del lupo

A differenza de Le otto montagne, La felicità del lupo è un romanzo corale. Cognetti, come mai ha voluto raccontare più voci, avere più punti di vista?
“Non era previsto, in realtà. L’unica cosa che sapevo dall’inizio era che volevo scrivere un romanzo in terza persona. La prima persona de Le otto montagne era così presente che avrei fatto fatica a cambiarla – non avrei saputo come fare, quella è la mia voce, è il mio Io. Ho fatto un po’ di fatica a iniziare, per tanti motivi. Avevo questa storia che mi girava in testa, soprattutto la storia d’amore tra Fausto e Silvia, ma non riuscivo bene ad affrontarla. Poi, ho capito che se la dividevo in più personaggi sarei riuscito a maneggiare meglio. Quelli che all’inizio erano due personaggi, sono diventati quattro. In realtà, nella mia testa, Silvia e Babette sono un po’ la stessa donna, in due età e due periodi diversi della vita. Sono l’inizio e la fine di una storia tra una donna e una montagna”.

Paolo Cognetti le otto montagne

Non è soltanto una storia d’amore tra due persone, infatti, ma una vera storia d’amore con la montagna. Che inizia sempre con grandi fuochi d’artificio e per alcuni si esaurisce, mentre per altri invece si rafforza.
“Infatti, quello tra Fausto e Silvia è un amore molto delicato, non una grande passione. Mi piaceva che, a differenza de Le otto montagne – che coinvolge grandi sentimenti della vita, il rapporto padre e figlio, l’unico amico che ti segue per tutta l’esistenza –, questa invece fosse una storia di incontri occasionali, di storie che durano il tempo di una stagione, di una fase della vita. Sono piccole, però mi piace come questi personaggi riescano a prendersi un po’ cura dell’altro, con poche parole, piccoli gesti. È una meditazione sulla cura, sull’accoglienza. E poi invece c’è il rapporto con la montagna che è un rapporto molto più forte di tutti queste relazioni tra i personaggi”.

Ci parli di questo rapporto.
“È un rapporto che cura, come nel caso di Fausto; che emoziona, come nel caso di Silvia, che si sente attratta ma non sa bene da cosa; è un rapporto lungo tutto una vita, come per Babette, che ormai si è esaurito. Tra tutti i personaggi è quello con la montagna, poi, il rapporto più forte”.

E veniamo al personaggio di Santorso: è come se dentro di lui volesse racchiudere tutte le persone che ha incontrato in montagna in questi anni.
“Sì, continuo a elaborare questa figura del montanaro, a fare delle variazioni sul tema. Ne Le otto montagne c’era Bruno. Qui invece c’è Santorso, che ha qualcosa che Bruno non aveva, cioè un po’ di ironia. È anche un personaggio un po’ comico, ogni tanto. Questa per me è un’esperienza nuova. Fondamentalmente ho sempre scritto di giovani, di solito le mie storie finivano quando i personaggi si affacciavano all’età adulta. Ho scritto tante storie di formazione, di adolescenza. Anche eterni adolescenti. Invece qui, per la prima volta, ho affrontato personaggi adulti, personaggi feriti, disincantati. Come se avessi esaurito il discorso sulla giovinezza”.

Un altro personaggio importantissimo, anche se appare per la prima volta quasi a metà del libro è proprio lui, il lupo. Il lupo che dà il titolo al romanzo.
“Certo, questo dal punto di vista della scrittura è stato un piccolo esperimento, dura poco, e forse in futuro proverò a svilupparlo. Scrivere dal punto di vista di un cane, di un animale, di un lupo. Jack London l’ha fatto per più di un libro. Per provare a scrivere proprio quelle pagine mi sono riletto Il richiamo della foresta. È miracoloso, se lo leggi da scrittore, come uno faccia a scrivere un libro così bello tutto dal punto di vista di un cane. Non un cane umanizzato, no, è un cane che è davvero un cane. Non è che pensa: sente, sente da cane. Una cosa che ho cominciato a fare solo con questo libro, ma che mi piacerebbe provare a portare avanti è che i personaggi di una storia possano essere anche alberi, animali ed elementi del paesaggio, trattati proprio come dei personaggi, non solamente ben descritti, ma vivi, che vivono una loro storia. Sarebbe bello farlo con un torrente, un albero e intrecciare tutto con gli elementi della storia. Mi sembra una cosa nuova dei nostri tempi, sarà che come scrittore uno ha sempre bisogno di sentire di stare esplorando qualcosa di nuovo, altrimenti è un po’ deprimente pensare che riscrivi sempre le stesse cose, no? E allora, per me, l’esplorazione spinge in questa direzione”.

A proposito di esplorazione: i suoi personaggi sono sempre alla ricerca di qualcosa, di se stessi, e lo fanno esplorando, esplorando gli altri, i luoghi, Silvia va addirittura su un ghiacciaio senza sapere cosa l’aspetterà.
“Sono figure di cercatori, credo che poi le cose che ti succedono nella vita influenzano quello che scrivi. Non ho una vita in cui mi sono fatto una famiglia, non mi occupo della vita quotidiana dei bambini, e quindi non racconto di com’è di andare a fare yoga al parco col passeggino. Non è la mia vita. Frequento molto di più i solitari, quello è il mio mondo, mi viene naturale scrivere di persone così”.

La montagna può rendere duri, dice, perché? È qualcosa che ha che fare con gli elementi atmosferici, il freddo, con il contatto duro con la natura?
“La montagna ti abitua alla fatica fisica, che è una cosa a cui le persone non sono più abituate, in palestra forse, ma quello è un altro tipo di discorso. Dopo che una persona va in montagna da tanti anni si abitua al suo corpo che fatica, e questo mette addosso una certa durezza di carattere, perché devi essere un po’ indifferente alla fatica, imparare a conviverci, senza darle però troppa importanza. Così come al freddo, o al brutto tempo, o a momenti di durezza che la montagna possiede e che forse è proprio ciò che andiamo a cercare. Perché è vero, uno va a cercare il sole, la bella stagione, ma ciò che uno ricorda sono quella volta che ci si è persi, quella volta che si è caduti, quella volta che si è presi una nevicata o un temporale”.

Ci sono due episodi in particolare in cui lo racconta, una di queste è la storia della vicina di casa di Fausto, Gemma, un’anziana signora, che vive a Fontana Fredda in solitudine.
“Anche la solitudine è qualcosa a cui la montagna ti allena, e nella solitudine c’è durezza. Ti abitui a parlare poco, a non parlare affatto, a stare dentro la tua testa. Io mi accorgo che quando sto su per un lungo periodo e poi torno in città faccio fatica. Le persone mi dicono ‘Ma non parli mai, cos’è sei arrabbiato?’. E invece no, non sono arrabbiato, è solo che mi ero abituato a stare zitto. Succede anche al contrario. Se sto per un lungo periodo giù dalla montagna quando torno su è un po’ difficile all’inizio. Mi sembra molto vuoto, mi sento molto solo. Dopo qualche giorno rinizio ad abituarmi alla solitudine.
La solitudine non è come uno pensa, che la soffri sul lungo periodo. In realtà la soffri molto di più all’inizio e poi ti ci abitui”.

Che rapporto ha con Karen Blixen, che cita in diverse occasioni in relazione al personaggio di Babette – che proprio da un racconto di Karen Blixen ricava il suo “nome d’arte”?
“Sento una fortissima somiglianza, come con certi autori di cui ti senti il figlio, il nipote. Perché ho letto tanto anche della sua vita. Questa sua cosa della donna borghese, cresciuta in una famiglia ricca, un ambiente rigido, poi il matrimonio con un nobile, in Danimarca. Sceglie l’Africa e ci rimane diciotto anni e quella per lei è l’esperienza più forte della sua vita, il contatto con una cultura completamente diversa, con il mondo selvaggio, con la bellezza. La mia Africa si può leggere come una storia d’amore che finisce male, come un grande amore non ricambiato. C’è una frase che mi piace tanto: ‘Ora io so una canzone dell’Africa, ma sa l’Africa una canzone che parli di me?’, sta a dire: questo mondo che mi ha cambiato la vita, verso cui io ho provato un profondo amore, prova qualcosa per me? È quello che mi chiedo io della montagna”.

In epigrafe cita Barry Lopez con il suo Sogni artici (Dalai, 2006), ci sono consigli che si sente di fare in relazione a libri sulla natura, sull’esplorazione?
Sogni artici lo consiglio a tutti. Una cosa che mi affascina è che noi italiani non abbiamo una tradizione di nature writing, la scrittura di natura. L’ha fatta un po’ Rigoni Stern, e pochi altri. Non sono libri di divulgazione scientifica, è il racconto della natura, e certo che ci vuole una grande preparazione scientifica. Ma c’è un sacco di poesia in Barry Lopez, c’è esplorazione, c’è avventura. Mi piace anche l’idea che in Italia questa tradizione non ci sia, è una strada che si può ancora esplorare. Di italiani mi sento di consigliare i libri di Stefano Mancuso, così come quelli di Daniele Zovi – un vecchio amico di Rigoni Stern, forestale di Asiago – che, dopo la pensione, ha iniziato a scrivere libri sul bosco, Italia selvatica (Utet, 2019), Alberi sapienti e antiche foreste (Utet, 2018), Autobiografia della neve (Utet, 2020): sono libri molto belli”.

Libri consigliati