Dopo il successo de “Le otto montagne”, Paolo Cognetti torna in libreria con “Senza mai arrivare in cima” (dedicato a Tiziano Terzani) e per l’occasione parla con ilLibraio.it del suo rapporto con il viaggio (“Un momento di apertura, di apprendimento”), con la popolarità, con la città, con l’amicizia, con scrittura e con i riferimenti letterari (“Mi piace che i libri diventino qualcosa di speciale nella mia vita”). Quanto, al futuro, anticipa: “Vorrei scrivere qualcosa su una donna e la montagna…” – L’intervista allo scrittore

Dopo la vittoria del Premio Strega nel 2017 con Le otto montagne (Einaudi), Paolo Cognetti (nella foto di Roberta Roberto, ndr) torna a scrivere di montagna nel diario di viaggio Senza mai arrivare in cima (Einaudi), in cui racconta il mese trascorso in Nepal con una carovana di oltre quaranta persone, tra escursionisti, sherpa e guide.

Paolo Cognetti Nepal

Il pretesto per il viaggio è il quarantesimo compleanno dell’autore, classe ’77, che parte con due amici: Nicola, un pittore con cui condivide la passione per Tiziano Terzani, e un amico montanaro, con cui condivide la vita sulle Alpi.

Lo scrittore milanese, conosciuto anche per le sue raccolte di racconti, tra cui Manuale per ragazze di successo, Una cosa piccola che sta per esplodere e Sofia si veste sempre di nero (tutti pubblicati da minimum fax), da anni trascorre gran parte dell’anno in montagna – una parte della sua vita che aveva già racontato a ilLibraio.it in occasione dell’uscita del romanzo Le otto montagne – e a questa esperienza ha dedicato il diario Il ragazzo selvatico (Terre di mezzo).

Paolo Cognetti Nepal

Per parlare del nuovo libro e del viaggio che l’ha ispirato, ma anche del legame con la letteratura – Paolo Cognetti ha vissuto a New York per seguire le tracce di grandi autori americani, la letteratura a stelle e strisce è un’altra sua passione, e alla metropoli ha dedicato New York è una finestra senza tende (Laterza), seguito da Tutte le mie preghiere guardano verso ovest (EDT), e ha inoltre curato l’antologia New York Stories – ilLibraio.it ha intervistato l’autore.

Il viaggio è un tema ricorrente nei suoi libri, sin da Sofia si veste sempre di nero: per lei cosa significa?
“Il viaggio è un momento di apertura, di apprendimento. Per questo, da una parte è fonte di grande ispirazione, dall’altra un bisogno che sento periodicamente nella vita”.

Anche in Senza mai arrivare in cima torna la montagna, con una concezione molto diversa da quella occidentale: non una vetta da scalare e conquistare, ma una vetta sacra, inaccessibile. Questa diversa concezione come cambia il modo in cui si vive la montagna?
“La montagna che racconto e vivo non ha più niente a che fare con l’alpinismo, che implica sempre la volontà di conquistare la vetta o di competere con gli altri. Sentimenti che non mi interessava raccontare. Piuttosto, è un mondo da attraversare e che per come è fatto – si può raggiungere solo con molti giorni di cammino – è più integro. Ecco cosa mi interessava: trovare un mondo che fosse lontano da una civiltà che mi sembra tutta uguale. Perché ormai tutto il mondo si sta omologando al modello ‘città’. Volevo vedere un mondo che fosse lontano e la montagna, che protegge e isola, mi ha permesso di trovarlo. Il cammino in montagna è per sua natura un rapporto con la fatica, e così il viaggio diventa un continuo confronto con te stesso”.

Come ne Le otto montagne, anche in questo diario di viaggio trova spazio l’amicizia tra uomini, tema che sembra tornare nelle narrazioni, dopo anni di oblio. Come se lo spiega?
“L’amicizia non fa parte della nostra letteratura contemporanea, dove c’è una presenza quasi ossessiva della famiglia e della coppia. Prova di una società in cui i rapporti fuori dalle mura di casa sono sempre più deboli. Fuori, nella città, non ci sono amici, ma estranei. Una volta i rapporti erano più forti, c’erano maggiori opportunità per stringere amicizie e relazioni. Siccome preferisco i legami elettivi a quelli di sangue, dove si scelgono le persone con cui stare, anche nelle mie storie racconto questo personale bisogno. Nella vita, per fortuna, mi succede di incontrare un nuovo amico e fare qualcosa insieme – come Pietro e Bruno ne Le otto montagne, o come me e Nicola che partiamo per il Nepal. Fare qualcosa insieme è importante: parliamo di amicizie maschili e quindi non troppo verbali”.

Durante il suo viaggio, la lettura de Il leopardo delle nevi le è stata di conforto. Che cos’è la letteratura per lei?
“Mi piace che i libri diventino qualcosa di speciale nella mia vita. Rileggo spesso, voglio sapere tutto il possibile sugli autori che amo, leggo le loro biografie, vado a vedere dove sono vissuti. Per me è importante che diventino quasi dei ‘compagni’”.

Lei ha raccontato che per scrivere Le otto montagne si è dedicato alla lettura di autori “di montagna” come Rigoni Stern. Per Senza mai arrivare in cima da quali libri e autori si è fatto ispirare?
Sì, Rigoni Stern mi ha accompagnato nella vita di montagna nella baita. Questa ricerca di Asia che sto praticando negli ultimi anni arriva da Terzani, a cui ho dedicato questo libro, proprio perché volevo che fosse evidente che per me è un maestro e che sto cercando di seguire la sua traccia. Viaggiando, ma anche vivendo in montagna uno scrittore è un maestro. Nel caso de Il leopardo delle nevi la lettura mi ha permesso di capire di più il mondo che stavo attraversando, ma anche di avere una voce amica che mi accompagnasse durante il viaggio. Non credo potrei fare un viaggio senza un libro”.

In che modo concilia la vita in montagna con il tempo trascorso nella sua città, Milano, e quello trascorso in passato a New York?
“La città la vivo sempre più come una necessità, mentre negli anni di New York era una scelta. Oggi so che parte della mia vita è in città perché ho bisogno di stare con i miei amici, stare con una donna, superare l’inverno. Questa è la vera necessità: dico sempre che in autunno torno a Milano per far passare l’inverno e ho scoperto che tanti in Nepal fanno lo stesso, vanno a Katmandu e aspettano. Non odio la città, ci sono nato e cresciuto e per certi versi è casa mia, ma sento che in questa stagione della vita mi interessa molto meno non solo della montagna, ma in generale dei luoghi naturali. Se dovessi pensare a un viaggio da fare ora non penserei a una grande città, ma a una costa, a un mare, a un lago…”.

Che cos’è cambiato dopo la vittoria del premio Strega e il successo de Le otto montagne?
“Il premio e le traduzioni all’estero hanno portato una grande popolarità, non solo in Italia. Da un lato mi ha dato molto: vivere di scrittura, iniziare progetti nuovi. Ma mi ha anche gettato in una vita che non è quella che desideravo e che desidero. Sto vivendo questi ultimi due anni come una pausa dalla mia vita vera, a cui sto facendo di tutto per tornare. È come aver trascorso due anni a fare altro prima di tornare alla propria normalità, e anche a scrivere”.

Quanto è importante per lei il rapporto con i lettori e come è cambiato in seguito alla vittoria dello Strega?
“Importante e allo stesso tempo difficile. Prima il mio indirizzo di posta elettronica era pubblico, quindi succedeva che un lettore mi scrivesse ed era bello iniziare un dialogo. Poi è diventato impossibile portare avanti una corrispondenza, perché i messaggi erano tantissimi. Paradossalmente, più sono aumentati i lettori, più sono diminuiti i miei rapporti con loro. Anche se ricevo molto affetto: non credo di potermi mai abituare a un estraneo che mi ringrazia per quello che ho scritto”.

Il racconto è una forma che ha frequentato per anni – ha anche scritto il saggio A pesca nelle pozze più profonde. Com’è maturata la scelta di dedicarsi al romanzo, negli ultimi tempi?
“Ho lasciato la forma del racconto perché mi sembrava di averla esaurita, in particolare dopo aver scritto il saggio in cui ho spiegato tutto quello che sapevo sul racconto dopo averlo scritto e insegnato per anni nei laboratori di scrittura, un’esperienza che cambia tanto la tua consapevolezza di autore. Avevo desiderio di mettermi in viaggio e di esplorare altre possibilità della scrittura; dedicarmi a un diario o a un romanzo ha significato questo: qualcosa di nuovo che dovevo imparare da zero. Spero che scrivere sarà sempre cercare qualcosa che non conosco ancora bene, scrivere come una forma di esplorazione. Potrebbe anche capitare che il racconto torni a essere un territorio sconosciuto”.

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Quindi anche la scelta di scrivere di giovanissimi e di ragazze, in passato, e ora di uomini adulti, è una sorta di eplorazione…
“Quando ho iniziato a scrivere di due amici mi sembrava di essere davanti a qualcosa che non avevo ancora mai raccontato. Invece a scrivere di una ragazza ormai mi ci ero abituato. Mi piace molto come cambia l’età dei miei personaggi: non avrei mai scritto di un quarantenne perché non mi sono mai sentito adatto a raccontarlo, mentre adesso mi interessa meno l’adolescenza o i vent’anni di cui in passato ho scritto molto. Ecco come la scrittura resta uno strumento interessante per affrontare l’ignoto e quello che hai davanti”.

E ora l’ignoto di cui le piacerebbe scrivere che cos’è?
“Mi piacerebbe scrivere qualcosa su una donna e la montagna. Nel personaggio di Lara ne Le otto montagne c’è qualcosa che mi piacerebbe approfondire. Vorrei scrivere se non di lei, di un’altra come lei. La montagna che ho raccontato fin qua è così maschile, ma in realtà ho conosciuto donne e ragazze che l’hanno scelta”.

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