Si definiva L’Arcitaliano. Curzio Malaparte (1898 – 1957) è stato uno degli autori italiani più controversi del Novecento. La sua vita, le sue scelte politiche, hanno proiettato un’ombra sulla sua produzione letteraria, relegandolo nell’oblio fino a pochi anni fa. Tramite “La pelle” (1949), il suo lavoro più riconosciuto (soprattutto all’estero), riscopriamo l’originalità (e la modernità) di uno scrittore che attinge alla disperazione e al dolore dei vinti, all’innocenza dei vincitori, rappresentando la fine della guerra tramite ciò che resta dell’umanità. Mentre la verità si mischia con la bugia, con l’esagerazione, con l’eccentricità…

Sull’isola più famosa del golfo di Napoli, ancorata a uno sperone di roccia, si erge una villa consumata dal sole e dalla salsedine.

Villa Malaparte a Capri, anche chiamata “casa come me” da Curzio Malaparte (Kurt Erich Suckert all’anagrafe) è forse il più chiaro simbolo della personalità dell’autore, tra gli altri, di La pelle (Adelphi).

La pelle curzio malaparte

Malaparte arriva sull’isola di Capri nel 1936 e rimane affascinato dalla bellezza di Capo Massullo, un artiglio di roccia che guarda da un lato alla costiera amalfitana e dall’altro ai Faraglioni, con le spalle rivolte a Napoli, quasi a ignorarla.

Acquista il terreno dal pescatore Antonio Vuotto per dodicimila lire e si mette subito in contatto con Galeazzo Ciano, marito di Edda Mussolini, per ottenere la licenza edilizia.

La casa è un parallelepipedo spigoloso, rosso pompeiano, ancorata alla roccia e sospesa tra mare e cielo. Dalla finestra dello studio si vedono i Faraglioni. Una scala esterna si allarga verso l’alto e porta al tetto che, dalla giusta prospettiva, diventa un vero e proprio trampolino sul nulla.

Una costruzione del genere, oggi sarebbe affidata solo ai più pioneristici architetti, invece per Curzio Malaparte la “casa come me” non era un’espressione di stile ma la rappresentazione di un certo modo di stare al mondo, che ha caratterizzato tutta la sua intera vita.

Foto da iStock

Fu chiamato e si definì egli stesso l’Arcitaliano, la summa di tutte le contraddizioni, le qualità e i difetti del popolo italiano. Ma Malaparte era un amplificatore di natura, una cassa di risonanza pronta a cogliere gli stimoli per duplicarli, triplicarli in intensità, fino a renderne una versione falsata, quasi blasfema, di quell’Italia del secondo dopoguerra, terra di vinti e di vincitori.

Fascistissimo della prima ora, Malaparte rimase deluso ben presto dalla mancata rivoluzione sociale: venne mandato al confino, ma continuò a ricevere la protezione del partito.

Dopo l’8 settembre 1943, con la resa dell’Italia, si unì come ufficiale alle truppe americane, per cambiare ancora orientamento nel dopoguerra, avvicinandosi al Partito Comunista Italiano.

In fin di vita lasciò in eredità Villa Malaparte al Partito comunista cinese e in punto di morte, dopo una vita di ateismo, si convertì alla religione cattolica.

La pelle è al centro di una produzione letteraria che racconta la decadenza dell’Europa tra le due guerre, iniziata con Kaputt e proseguita con Il ballo al Kremlino (entrambi editi da Adelphi). Ne La pelle l’esperienza al fianco degli americani liberatori si trasforma in un racconto crudo, vertiginoso e addolorato della liberazione di Napoli.

“Oggi si soffre e si fa soffrire, si uccide e si muore, si compiono cose meravigliose e cose orrende, non già per salvare la propria anima, ma per salvare la propria pelle. Si crede di lottare e di soffrire per la propria anima, ma in realtà si lotta e si soffre per la propria pelle, soltanto per la propria pelle. Tutto il resto non conta.”

Nicola Lagioia ha osservato come il libro possa essere considerato una non-fiction novel, una forma ibrida tra romanzo, reportage letterario e giornalismo, una rielaborazione letteraria della realtà più intensa e complessa di una semplice cronaca. L’altro genere letterario anticipato da La pelle è quello dell’autofiction: l’io narrante è Malaparte stesso, senza nemmeno un alter ego a fargli da schermo. (Alessandra Sirotti, Un’epidemia che colpisce lo spirito: «La pelle» di Curzio Malaparte)

Malaparte attinge alla disperazione e al dolore dei vinti, all’innocenza dei vincitori, rappresentando la fine della guerra tramite ciò che resta dell’umanità. Nel suo lavoro la verità si mischia con la bugia, con l’esagerazione, con l’eccentricità.

La scrittura non può quindi essere intesa come un reportage giornalistico. Tra le pagine del volume non si ha un riscontro veritiero, ma un racconto cupo, osceno e malato di quella liberazione che aveva travolto Napoli rendendola schiava di nuovi vincitori.

Le opere di Malaparte rispecchiano quello spirito novecentesco che si alimentava di eccessi, di sentimenti fortissimi, incapace di apprezzare le sfumature, i toni di grigio.

Proprio come la “casa come me”, la produzione letteraria di Curzio Malaparte rappresenta quindi un reperto storico, una pietra angolare per comprendere quell’esperienza umana in un mondo stravolto dalle guerre mondiali: la solitudine esistenziale trasformata in unicità estrema, una fame di esagerazione per contrastare la disperazione.

“Tutti piangevano, poiché un lutto, a Napoli, è un lutto comune, non di uno solo, né di pochi o di molti, ma di tutti, e il dolore di ciascuno è il dolore di tutta la città, la fame di uno solo è la fame di tutti. Non v’è dolore privato, a Napoli, né miseria privata: tutti soffrono e piangono l’uno per l’altro, e non c’è angoscia, non c’è fame, né colera, né strage, che questo popolo buono, infelice, e generoso, non consideri un tesoro comune, un comune patrimonio di lacrime”.

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