Non c’è alcun altrove capace di salvarci se non lo facciamo da soli: “La strangera”, romanzo di formazione di Marta Aidala, è un esordio felice e grintoso, che parla della ricerca del proprio posto nel mondo. L’autrice dimostra di conoscere bene la montagna e la sua voce è limpida…

“Esistono posti in cui ti piace svegliarti la mattina. Che sai che apri la finestra e li vedi.
E non è che ti curano, non ti cura niente e nessuno. Sono solo la casa che ti scegli.”

Appartenere ai luoghi: il bisogno di sentirsi a casa è un sentimento difficile da accogliere, che fa a botte con il senso costante di ricerca di libertà, di un altrove da noi stessi. Ha a che fare con il restare, richiede tanta forza.

La strangera di Marta Aidala

Beatrice ha sempre amato la montagna, e l’ha vissuta per molto tempo nella sua sfida, nella scalata che è una lotta continua. Salire, senza guardare, tenendo d’occhio solo dove mettere i piedi, dove aggrapparsi, la vetta come conquista, giusto il tempo di vedere quanto è bello il mondo da lassù, dove nulla può raggiungerti, e poi intraprendere la discesa. Salire e scendere per provare qualcosa a se stessi, Beatrice l’ha fatto per anni, poi qualcosa è successo che l’ha fatta smettere: la montagna è rimasta lì, immensa e silenziosa, ad aspettare.

Perché un giorno Beatrice decide di lasciare tutto, studi, città, amici, parte da Torino per andare a vivere in un rifugio, per restare, lavorare per trovare una dimensione che forse può darle risposte, farle trovare il suo altrove, e con quello la sua stabilità, una qualche forma di salvezza dalla propria irrequietezza.

Al rifugio del Barba le cose non sono facili: il lavoro è duro, il capo è ruvido, ci sono i turisti da servire, giusto il tempo di una sigaretta per sé, una camerata da dividere con gli altri, che hanno esperienze in comune, e progetti da realizzare. Beatrice non ha progetti, ha solo un gran bisogno di faticare, per domare la furia che si sente addosso senza un perché e che solo la montagna con le sue anse di fiume, i valichi, il cielo, sembra riuscire a incanalare.

 

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Non racconta a nessuno delle sue scalate, delle sue salite e discese, si presenta per quello che è, una ragazza di città, e come tale viene accolta dalla diffidenza della gente di montagna, femmina, e “straniera”.

“«Una strangera».
Fu quell’uomo a chiamarmi così per la prima volta, e avrei voluto rispondere ciò che avrei detto a tutti gli altri in seguito, che lì in montagna io ero straniera esattamente quanto loro.”

La strangera di Marta Aidala (Guanda) è un esordio felice e grintoso, che parla della ricerca di un proprio posto nel mondo, e di risposte che si trovano solo dentro di noi.

Marta Aidala conosce bene la montagna e la sua voce è limpida, forte e piena di sentimento autentico: la sua Becca non è interessata ai conflitti degli umani, lei semplicemente sta lì, e la sua bellezza è straordinaria, cosi come la sua pericolosità. Perché quando decide di venire giù, lo fa senza preavviso, e trascina via tutto, in un boato che parte delle viscere della terra; quando tradisce, lo fa anche verso gli scalatori più esperti e rispettosi, queste sono le sue regole. Non si può fare altro che capirlo, guardando la montagna, imparando a conoscere i suoi silenzi vivi, sapendo che al massimo ci si può aggrappare alla terra e alle rocce, sfidando la pendenza, per un po’, come fanno i larici, come fanno i malgari, con le loro rotte sempre uguali, senza deviazioni, e se sei sul loro percorso ti sposti tu.

Accanto al Barba, Beatrice capisce il significato di gesti che l’altitudine rende assoluti, lo sguardo attento, l’informazione precisa, la conoscenza dei segnali: il popolo dei rifugi conosce le regole, e sa anche accettare gli incidenti. Lei no, e un episodio segna una frattura dell’equilibrio tra le due dimensioni di Beatrice, la vita conosciuta di città, con la sua rassicurante routine, e la vita piena di incognite della montagna, dove la bellezza racchiude la minaccia.

“La Becca si stagliava di fronte a me con le sue guglie mozzate, su cui la presa bianca del ghiaccio aveva allentato gli artigli. Dal terrazzo del rifugio sembravano stringermi in un abbraccio che in quel giorno di nubi fosche si era trasformato in una morsa”.

Il rifugio crea legami sorprendenti tra persone che sembrano non avere nulla da spartire, e mentre il Barba leviga a poco a poco la sua ruvidità, rivelando il suo passato, si imbastisce un rapporto insolito tra Beatrice e Elbio, la ragazza di città e il pastore, che trovano una loro grammatica di silenzi, rossori, cammini, abbandoni, perché le stagioni della malga dettano regole, e mancanze. Lei con il suo bisogno di risposte e di cambiamenti, lui con l’immobilità di chi il proprio posto ce l’ha dalla nascita e non l’ha mai messo in discussione: i loro sono mondi paralleli radicalmente diversi, che si slanciano uno verso l’altro con curiosità e si ritraggono con pudore.

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Marta Aidala ci fa dono di una natura accogliente e insidiosa, superba nelle sue bellezze, e lo fa calandoci nei conflitti più profondi di un cuore che ansima, tra ricerche, errori, delusioni e fughe: la montagna sta lì, sempre presente per chi va e viene, per chi si cerca nei sentieri, e per chi resta, ed è capace con questa sua indifferenza di far capire che si riesce ad appartenere davvero ai luoghi quando si fa pace con se stessi.

È con questa verità che La strangera ci consegna a tutti gli effetti un autentico romanzo di formazione, nella sua pienezza e profondità di racconto: non c’è alcun altrove capace di salvarci se non lo facciamo da soli.

“Io ero andata a cercare i larici.
Per trovarli avevo camminato un’ora, arrivando al limitare della quota del bosco.
Ne vidi alcuni, inerpicati sul pendio di fronte a me. Chissà come ci erano arrivati.
Stavano là, sparuti, soli, a crescere in mezzo alle rocce.”

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Fotografia header: Marta Aidala - foto di Federico Ravassard

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