Com’è possibile festeggiare la vita quando il cuore è ancora ferito dalla morte? Gioia natalizia e lutto diventano incompatibili. Eppure i primi credenti chiamavano “dies natalis”, giorno della nascita, proprio quello della morte… Su ilLibraio.it la riflessione di Alberto Maggi, che domanda: “Veramente la morte è una perdita? Un’assenza? O va piuttosto intesa come un cambio di relazione?”. Per il biblista, con la morte non si “perde” la persona, ma cambia il modo di relazionarsi con questa, perché si sono modificate le modalità del suo esistere, in quanto l’individuo attraverso il morire è passato da un corpo fisico a un “corpo spirituale”

LASCIATELI ANDARE

Non c’è nulla come l’approssimarsi del Natale, con il suo insistente bombardamento di immagini per lo più artificiali di calde atmosfere, di famiglie felici, gioiose e sorridenti, per riaprire ferite che mai si erano cicatrizzate.

Come non pensare in questo periodo a quelle persone che negli scorsi Natali erano ancora presenti e rendevano serene le feste? E così, per molti, quelli che dovrebbero essere giorni di gioia si trasformano in un tormento; si desidererebbe sorridere ma c’è solo un nodo alla gola che non viene sciolto per non sfociare in pianto; si vorrebbe partecipare a questa festa di luci, ma ci si sente inchiodati nell’oscurità e l’allegria altrui non solo non coinvolge, ma irrita e genera fastidio. Com’è possibile festeggiare la vita quando il cuore è ancora ferito dalla morte? Gioia natalizia e lutto diventano incompatibili.

Eppure i primi credenti chiamavano “dies natalis”, giorno della nascita, proprio quello della morte. Essi erano certi che non si moriva mai, ma si nasceva due volte e la seconda era per sempre. Sapevano che “la vita non è tolta, ma trasformata”, come recita il Prefazio della Liturgia dei defunti perché, come scrive Paolo, “veniamo trasformati in quella medesima immagine, di gloria in gloria” (2 Cor 4,16). I primi cristiani non contrapponevano la vita alla morte, ma nascita e morte erano considerate come espressione della stessa dinamica esistenziale della vita, che chiamavano eterna non tanto per l’indefinita durata, ma per la sua qualità indistruttibile, capace di superare la morte.

È comprensibile che non sia facile, dopo secoli di insegnamenti dottrinali che hanno presentato la morte come un castigo divino (“Polvere tu sei e in polvere ritornerai!”, Gen 3,19), vederla al contrario come un dono prezioso, un inizio anziché una fine. C’era la convinzione che con la morte finisse ogni possibile contatto con i defunti le cui anime, nel migliore dei casi, salivano in cielo (quando non sprofondavano all’inferno), determinando così una definitiva separazione con i vivi. Di fatto le espressioni con le quali ci si riferisce ai defunti, tutte con un’accezione di perdita, di lontananza, di distanza e di assenza, non fanno che acuire il dolore.

Ma veramente la morte è una perdita? Un’assenza? O va piuttosto intesa come un cambio di relazione? La vita intera è un continuo processo di trasformazione dove si “muore” a quel che si è per far posto a quel che vuol nascere. Fanno parte della dinamica della vita la crescita, la maturazione e la trasformazione dell’individuo (“Anche se il nostro uomo esteriore si va disfacendo, quello interiore invece si rinnova di giorno in giorno”, 2 Cor 4,16).

Nella crescita non si “perde” quel che si è stati ma lo si porta a compimento, poiché solo quel che si è stati rende possibile quel che si è ora. Sta a quanti sono vicini alla persona in crescita cambiare in maniera graduale ma progressiva il loro modo di relazionarsi. È evidente che non si può continuare a trattare l’adolescente come un bambino o l’adulto come un ragazzo. Non si “perde” il bambino, l’adolescente o il giovane, ma si sviluppa un nuovo tipo di relazione, non per questo meno ricca, anzi indubbiamente più intensa e profonda.

Ugualmente con la morte non si “perde” la persona, ma cambia il modo di relazionarsi con questa perché si sono modificate le modalità del suo esistere, in quanto l’individuo attraverso il morire è passato da un corpo fisico a un “corpo spirituale” (1 Cor 15,44). Non un’anima, quindi, ma un corpo, non un’assenza ma una presenza reale; non una dimensione diminuita, ma potenziata e arricchita dal suo essere una realtà spirituale, non più legata allo spazio e al tempo. Ciò permetterà ai defunti di essere “trasformati in qualsiasi forma vorranno, di bellezza in grazia, di luce in splendore di gloria”, come si legge in un testo del primo secolo dopo Cristo (Apocalisse siriaca di Baruc, LI,10).

Quando invece questo non è compreso, si resta attaccati a quel corpo fisico conosciuto vivendo nel passato, nel ricordo e nella nostalgia che spesso fanno sprofondare in una triste malinconia. Così si rievocano mestamente i momenti che non sono più, contando in modo ossessivo giorni, mesi e anni trascorsi dal giorno della morte, trattenendo i defunti a una cronologia che ad essi ormai non appartiene più, avviluppandoli alla propria lacerante sofferenza.

Eppure nei vangeli le indicazioni sono molto chiare e diverse, come nell’episodio di Lazzaro (Gv 11), dove la sua risurrezione viene condizionata dalla fede della sorella Marta: “se credi… vedrai” (Gv 11,40), indicazione preziosa che vuol far comprendere che la narrazione non riguarda un avvenimento storico, ma esclusivamente teologico. Esso non è un fatto di cronaca ma un’esperienza di fede, non uno straordinario episodio di duemila anni fa, ma un insegnamento valido per i credenti di ogni tempo.

Gesù non compie alcuna azione su Lazzaro, ma davanti al sepolcro impartisce tre comandi imperativi che sono sempre di grande attualità, perché riguardano il modo nuovo di approcciarsi alla morte e alla vita, rivelatoci da Colui che ha affermato “Io Sono la risurrezione e la vita; chi crede in me, anche se muore, vivrà, e chiunque vive e crede in me, non morirà mai” (Gv 11,25).

Il primo comando è: “Togliete la pietra!” (Gv 11,39). La pietra che sigilla il sepolcro è ciò che separa definitivamente il mondo dei viventi da quello dei morti. Occorre toglierla per aprirsi alla vita e comprendere finalmente che quelli che sono pianti come morti sono in realtà viventi.

Il secondo ordine imperativo è “Scioglietelo”. Il morto era infatti uscito dalla tomba “con i piedi e le mani legate da bende”. Questa maniera di seppellire i morti, sconosciuta tra i Giudei, ha valore simbolico: Lazzaro è legato come un prigioniero della morte (“Mi stringevano funi di morte”, Sal 116,3.15.16). Occorre sciogliere il morto da quei legami con i quali ancora si cerca di trattenerlo.

Infine, per il terzo e ultimo comando imperativo: “Lasciatelo andare”, l’evangelista usa lo stesso verbo col quale indica il cammino di Gesù verso il Padre passando attraverso la morte (Gv 8,14; 13,3). Diversamente da ciò che ci si sarebbe aspettato, Gesù non invita Lazzaro a dirigersi verso i presenti e nemmeno questi ultimi ad andargli incontro. Il Signore non restituisce Lazzaro ai suoi, ma lo lascia andare. Non lo riporta in un mondo che non gli appartiene più, come per un frutto non è possibile ritornare ad essere il fiore che l’ha fatto nascere.

Ormai sciolto dai legacci della morte, il discepolo è libero di continuare il suo cammino di crescita in crescita, di splendore in splendore, nella pienezza della dimensione divina che non lo allontanerà dai suoi cari, ma che gli permetterà di essere ancora più efficacemente presente, come il Cristo risuscitato che non abbandonò i suoi discepoli e “agiva insieme con loro e confermava la Parola con i segni che la accompagnavano” (Mc 16,20).

Modello di comprensione di questa nuova realtà è la madre di Gesù. Presente presso la croce dove il figlio viene giustiziato (Gv 19,25), Maria non è con il gruppo di donne galilee che si recano al sepolcro del Cristo (Mc 16,1), e neanche piange con Maria di Magdala davanti al sepolcro vuoto (Gv 20,11-18). A Maria, grande nella fede, non è rivolto il rimprovero “Perché cercate tra i morti colui che è vivo? Non è qui, è risorto” (Lc 24,5-6). Lei lo sa. Per questo non piange un morto, ma continua a camminare con il Vivente, Colui che è “la via, la verità e la vita” (Gv 14,6).

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Alberto Maggi – foto di Basso Cannarsa

L’AUTORE – Alberto Maggi (nella foto grande di Basso Cannarsa, ndr), frate dell’Ordine dei Servi di Maria, ha studiato nelle Pontificie Facoltà Teologiche Marianum e Gregoriana di Roma e all’École Biblique et Archéologique française di Gerusalemme.

Biblista e assiduo collaboratore de ilLibraio.it, è una delle voci della Chiesa più ascoltate da credenti e non credenti. Fondatore del Centro Studi Biblici «G. Vannucci» a Montefano (MC), cura la divulgazione delle sacre scritture interpretandole sempre al servizio della giustizia, mai del potere. Con Garzanti ha pubblicato Chi non muore si rivede, Nostra signora degli ereticiL’ultima beatitudine – La morte come pienezza di vita, Di questi tempi, Due in condotta, La verità ci rende liberi (una conversazione con il vaticanista di Repubblica Paolo Rodari) e Botte e risposte – Come reagire quando la vita ci interroga.

Il suo ultimo libro, sempre edito da Garzanti, è dedicato alla figura di Bernadette.

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