Giuseppe Lupo è tornato in libreria con “Gli anni del nostro incanto”, in cui racconta il periodo più esaltante e contraddittorio del secolo scorso: gli anni del boom e quelli di piombo. In un intervento su ilLibraio.it si sofferma sull’atteggiamento di dissenso che la letteratura (più che il cinema o le canzoni) ha espresso nei confronti del miracolo economico

Il mito della fabbrica, che avrebbe risolto i problemi degli uomini distribuendo lavoro e dignità in forma democratica, ha nutrito l’immaginario di almeno due generazioni: quelli che erano giovani negli anni Cinquanta (quando è cominciato il miracolo economico) e quelli che erano ancora bambini negli anni Settanta (quando il miracolo economico era già finito). I nostri nonni conoscevano di sfuggita il termine fabbrica, perché la loro vita era rimasta legata alla civiltà della terra e delle botteghe artigianali. Gliela raccontavano i figli quando tornavano per le ferie di agosto e parlavano di ciminiere, catene di montaggio, periferie, condomini: il lessico di chi era stato costretto a inurbarsi, emigrando a Milano o a Torino, a Düsseldorf o a Zurigo, per entrare negli ingranaggi della modernità. Il modello industriale era guardato da tutti, anche da chi non lo aveva mai visto, con un sentimento di attesa e di speranza perché la sua organizzazione, le paghe che elargiva, il senso di sicurezza e di stabilità che trasmetteva, davano la sensazione di una vita cittadina ed esatta, regolata dalle sirene dei turni più che dalle campane delle chiese, dove anche i gesti quotidiani – come fare la spesa nei grandi magazzini o andare al cinema o salire a bordo di una lambretta per una gita fuori porta – assicuravano il passaggio verso un’epoca che chiudeva definitivamente i conti con il passato. Improvvisamente non eravamo più un popolo di contadini, eravamo diventati un popolo di operai che percorrevano la via del benessere a portata di mano: frigoriferi, lavatrici, televisori, automobili, lambrette, giradischi. Il vocabolario degli anni Sessanta includeva i termini di una tecnologia domestica e confortevole, era il termometro dei cambiamenti avvenuti di cui il cinema e la letteratura avrebbero narrato come cartoline di un’Italia in bianco e nero, che ride spensierata, segue la liturgia di una “dolce vita” potenzialmente eterna, ma che già preavverte i segni latenti di una conflittualità o di una debolezza strutturale. La città industriale da un lato promette e dall’altro ferisce, dà e toglie, concede e mette in crisi. Penso ad alcune pellicole che riguardano la civiltà industriale: Rocco e i suoi fratelli di Luchino Visconti, per esempio, o Romanzo popolare di Mario Monicelli. Ma anche se leggiamo alcuni capolavori della letteratura di fabbrica – Donnarumma all’assalto di Ottiero Ottieri, Memoriale di Paolo Volponi – si rimane convinti a metà sugli effettivi vantaggi apportati dal boom: Antonio Donnarumma (nel libro di Ottieri) non riuscirà a essere assunto dalla fabbrica a cui porta il suo assalto, Albino Saluggia (nel libro di Volponi) diventa una vittima dell’alienazione. Potrebbe risultare strano, a fronte di un’euforia collettiva, l’atteggiamento di dissenso che la letteratura (più che il cinema o le canzoni) ha espresso nei confronti del miracolo economico. Potrebbe addirittura suscitare perplessità il fatto che alcuni intellettuali (faccio i nomi di Umberto Eco in Apocalittici e integrati e di Franco Fortini in Verifica dei poteri) abbiano demonizzato la corsa ai consumi e la società di massa. Snobismo antimoderno? Incapacità di comprendere i fenomeni? Cecità ideologica? Una miscela di tutto questo sicuramente c’è. Per quanto mi riguarda, io ricordo mio nonno, in Lucania, che aspettava agosto per veder tornare i figli, ascoltava i loro ragionamenti sulla Pirelli Bicocca e sulla Bassetti, si divertiva a osservare le novità che ogni anno portavano in regalo (un apparecchio radio, un giradischi, un asciugacapelli, un frullatore) come oggetti di un nuovo mondo.

 

giuseppe lupo

IL NUOVO ROMANZO DI GIUSEPPE LUPO – Una domenica di aprile, una Vespa, a Milano, negli anni Sessanta: un padre operaio, una madre parrucchiera, un figlio di sei anni e una bimba che non ne ha ancora compiuto uno. Vengono dalla periferia, sembrano presi dall’euforia del benessere che ha trasformato la loro cronaca quotidiana in una vita sbarluscenta. Qualcuno scatta una foto a loro insaputa. Vent’anni dopo, nei giorni in cui la Nazionale di calcio italiana vince i Mondiali di Spagna, una ragazza si trova al capezzale della madre che improvvisamente ha perso la memoria. Il suo compito è di ricordare e narrare il passato, facendosi aiutare da quella foto.
Prende così avvio il racconto di una famiglia nell’Italia spensierata del miracolo economico, una nazione che si lascia cullare dalle canzoni di Sanremo, sogna viaggi in autostrada, si entusiasma con i lanci nello spazio dei satelliti americani e sovietici, e crede nel futuro, almeno fino a quando non soffia il vento della contestazione giovanile e all’orizzonte si addensano le prime ombre del terrorismo. Dopo la strage di piazza Fontana finisce un’epoca favolosa e ne comincia un’altra. La città simbolo dello sviluppo industriale si spegne nel buio dell’austerity, si sporca di sangue e di violenza, mostra il male che si annida e lascia un segno sul destino di tutti.
Giuseppe Lupo torna in libreria con Gli anni del nostro incanto (Marsilio), in cui racconta il periodo più esaltante e contraddittorio del secolo scorso – gli anni del boom e quelli di piombo – entrando nei sogni, nelle illusioni, nelle inquietudini, nei conflitti di due generazioni a confronto: quella dei padri venuti dalla povertà e quella dei figli nutriti con i biscotti Plasmon.

 

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