Il western è un genere letterario estremamente prolifico. Questa selezione di titoli, usciti di recente, declinano in modi diversi lo stesso archetipo. Si va da “Distanza ravvicinata”, i racconti del Wyoming di Annie Proulx, alla “Trilogia della Patria” di Matteo Righetto, passando per “Lonesome Dove” di Larry McMurtry e “West” di Carys Davies – L’approfondimento su un genere che, dal cinema alla letteratura, torna, a cicli, a ondate, a bussare alle porte della fantasia

Il western: si parla di pianure brulle, rocce scoscese, pistoleri misantropi e indiani feroci, insomma, di un genere narrativo leggendario. Dal cinema alla letteratura torna, a cicli, a ondate, a bussare alle porte della fantasia, immutabile nei suoi archetipi mentre, fuori, il frullatore del mondo avanza incessantemente.

Senza scomodare mostri sacri come Clint Eastwood o Cormac McCarthy, che stanno bene dove stanno e non hanno bisogno di presentazioni, negli ultimi anni abbiamo assistito a quello che si potrebbe definire un revival del genere, un rinnovato bisogno di vento dell’ovest. Al cinema sono passati, per esempio, il pastiche di citazioni Hostiles, con Christian Bale, e Deadwood, che riprende le fila di un fortunato serial del 2004. E, anche in letteratura, ovviamente, questi ultimi anni sono stati fecondi di storie.

Bisogna fare attenzione, però, a pensare con troppa convinzione al genere letterario immutabile sotto al cielo, con i suoi topoi ormai pietrificati: si può mantenere l’archetipo senza scadere in banalità, giocandoci, utilizzandolo per costruire narrazioni che trovano la loro forza nello scarto, confermando e negando al contempo il vasto universo di immagini da cui attingono.

Ferocia

È questo che fa Annie Proulx nei suoi Racconti del Wyoming, suddivisi in tre volumi, tutti in pubblicazione presso minimum fax. Ma basta leggere il primo, Distanza ravvicinata, in libreria da maggio 2019 (traduzione di Alessandra Sarchi), per ritrovarsi immersi un mondo tanto moderno quanto immutabile allo scorrere del tempo. Un ossimoro, si direbbe, immediatamente comprensibile però a coloro hanno vissuto e viaggiato per territori inospitali, che hanno faticato a adeguarsi alle stagioni del mondo. Un Wyoming contemporaneo, quindi, invaso da turisti che sono al contempo odiati come invasori e cercati in quanto fonte di guadagno. Le giornate dei suoi personaggi, però, al netto di queste incursioni di contemporaneità, resistono ai marosi dei decenni: le vacche e i buoi vanno portati al pascolo, i cavalli imbizzarriscono e – alle volte – uccidono, gli uomini si ubriacano in giornate disperate sempre davanti allo stesso orizzonte. Quello di Annie Proulx è un universo prettamente maschile, e quella che racconta una fetta di America cristallizzata in un gioco di ruoli – di genere e sociali -, immune a qualsiasi rivolgimento storico.

I racconti del Wyoming di Annie Proulx, Minimum Fax

Annie Proulx ha cominciato a pubblicare tardi, a quarantanove anni: una maturità che probabilmente le è servita nella costruzione di uno stile pieno e di uno sguardo estremamente consapevole. La sua scrittura è lirica e immaginifica, in piacevole contrasto con la materia dura che racconta e che viene così ammorbidita dalle scelte lessicali. A un’attenzione manifesta e palpabile per la natura (dichiarata dall’autrice anche in diverse interviste), si accompagna quella per un destino che si mischia e confonde spesso alla volontà degli uomini, una forza oscura e ancestrale che ne guida le scelte. I paesaggi e le condizioni di vita sono feroci, e i personaggi di Proulx giocano, alternativamente, con la follia e con il sogno: a ogni pagina, nei racconti di Distanza ravvicinata, si respira la sciagura imminente. Da notare, in particolare, la presenza di un racconto, non perché sia migliore degli altri, ma per la sua influenza culturale: Brokeback Mountain, l’ultimo della raccolta, da cui è stato tratto l’omonimo film di Ang Lee.

Il tempo, lo spazio

Le distanze del west sono sempre enormi, dilatano lo spazio narrativo, rendono ogni spostamento una fatica degna di essere raccontata. È quello che succede nelle mille pagine di Lonesome Dove, romanzo che è valso all’americano Larry McMurtry il Pulitzer nel 1986, uscito per i Supercoralli Einaudi nel 2017 e ripubblicato in tascabile nel 2019 (nella traduzione di Margherita Emo). Il suo romanzo, tanto quanto i racconti di Proulx (McMurtry, tra l’altro, ha anche lavorato alla sceneggiatura di Brokeback Mountain), è percorso da una forte vena malinconica, ma con una serie di marcate differenze. Oltre ai luoghi (la storia dei suoi personaggi comincia ai confini tra Texas e Messico), infatti, a differire è anche lo spirito che anima le sue pagine. Non c’è oscurità, nelle vicende narrate da Larry McMurtry, quanto una diffusa grazia. Certo, le disgrazie restano sempre tali e, spesso, i presagi funesti si avverano anche, ma con una diversa apertura alare sui destini degli uomini.

Einaudi, Lonesome Dove, McMurtry

Lonesome Dove è un romanzo con una narrativa estesa tanto quanto i luoghi che racconta, corale, in cui McMurtry concede la stessa attenzione a tutti i suoi personaggi, indagati bonariamente nella loro storia personale. Azzardo dicendo che Lonesome Dove, con il suo respiro ampio, è il più russo dei romanzi western: per la delicata ironia che in ogni pagina si mescola alla tragedia umana, per la placida riflessione sull’esistenza, che ne riconosce l’ineluttabile drammaticità senza per questo trasformarla in dramma. Quello raccontato da McMurtry è un mondo in rovina, lontano dai vecchi fasti dei feroci combattimenti tra indiani e ranger. Gli indiani non ci sono: uccisi o isolati non rappresentano più un pericolo e agli stanchi – e neanche più tanto giovani – cowboy, in questo cosmo in transizione tra il vecchio e il nuovo, non resta che allevare vacche, cavalli, bufali. Quello che nasce come resoconto di un viaggio dal Texas al Montana, con la promessa di avventura e combattimenti, diventa dunque una storia di fatica e ripiegamento interiore, la fotografia di un gruppo in cui ogni individuo è in realtà viaggiatore solitario, carico del suo vissuto, reale o immaginario che sia.

A caccia di utopie

Chi si rifà, invece, a quello che potremmo definire “western classico” è un’altra autrice, Carys Davies, gallese. Conosciuta per i suoi racconti, con West (Bompiani, 2019, tradotto da Giovanna Granato) passa al romanzo (breve) scegliendo un’ambientazione e una trama di stampo estremamente tradizionale. West è infatti la storia un uomo che parte alla ricerca di animali giganteschi, forse mitologici, dopo aver letto sul giornale del rinvenimento di enormi ossa, e di una figlia che resta a casa ad aspettarlo e affronta una vita sedentaria in pianura. L’attenzione dell’autrice si concentra dunque su un’utopia, su una ricerca dettata tanto dalla curiosità per l’ignoto quanto da vaghi sogni di gloria, e che si rivela fallimentare fin dalle sue premesse. A dare movimento è l’intreccio, che si biforca per seguire, a capitoli più o meno alternati, le vicissitudini del padre e le vicende, più intime e quotidiane, della figlia.

West di Carys Davies, Bompiani

Se la sensazione iniziale che prova il lettore è quella di un “già visto” di stampo quasi cinematografico, la storia acquista velocemente corpo. Si tratta sicuramente di un testo improntato più sulla qualità della narrazione, sulla scelta minuziosa delle parole, che sulla quantità di eventi e fatti narrati. Il che non è un male e, anzi, in un romanzo così snello e comunque forte di un paio di personaggi ben caratterizzati, rappresenta un punto di forza. Rispetto ai racconti di Proulx e al romanzo-fiume di McMurtry, che si svolgono in epoche diverse ma sono fortemente realistici, quella di Carys Davies si configura più come una favola ancestrale, con panorami che spesso sfociano nell’onirico, fondata su alcuni archetipi: la lotta dell’uomo con la natura, la curiosità che porta alla follia, l’incomunicabilità tra gli individui a cui si contrappone la comunanza tra anime affini.

Anche le Alpi sono a ovest di qualcosa

Di natura completamente differente è invece la Trilogia della Patria, dell’italiano Matteo Righetto, che segue le avventure dei fratelli De Boer, coltivatori di tabacco, dal primo volume, L’anima della frontiera (Mondadori 2017), a La terra promessa, uscito nel marzo 2019 a chiusura della vicenda. Ambientati sulle montagne venete, sopra Bassano del Grappa, i romanzi di Righetto sono dei veri e propri western all’italiana, tanto avventurosi quanto cinematografici, in cui l’autore si diverte con un citazionismo ora sottile ora più marcato (il paese fittizio in cui vivono i De Boer, per esempio, si chiama Nevada). Un gioco originale, con una protagonista femminile forte, in cui la commistione di generi è particolarmente riuscita e l’appartenenza al territorio veneto è sottolineata a più riprese: dai richiami paesaggistici alla gastronomia (come la soppressa e il formaggio che la protagonista Jole mangia a più riprese nel primo volume).

Trilogia della patria, Righetto, Mondadori

C’è un aspetto specifico che accomuna tutti gli autori: sia nella Trilogia della Patria, sia nei racconti di Proux, sia nei romanzi di McMurtry e Davies, è di vitale importanza la descrizione naturalistica. Il paesaggio, insomma, è sempre protagonista tra i protagonisti: quando accompagna gli uomini, quando gli è ostile, quando fa da fondale ai loro sogni e quando culla le loro follie.

Che siano i panorami del Texas, del Wyoming, o ancora le Alpi, lo spirito che le frontiere, le montagne, e i deserti suscitano, è quello di una sottile alienazione. Di una ricerca avventurosa che da scontro con la natura e con l’altro si trasforma in una ricerca interiore, profondamente individuale. Se, insomma, l’archetipo viene mantenuto in ciascuno di questi testi, le sue declinazioni riescono comunque a regalarci delle narrazioni estremamente differenti fra loro, in grado di soddisfare chi apprezza testi corposi e fortemente letterari, ma anche chi cerca storie più dinamiche.

Abbiamo parlato di...