La borghesia di ieri e di oggi, il rapporto con il mentore Roberto Calasso, il matrimonio con Gian Marco Moratti, il femminismo, la fede, le donne più eleganti della Milano dei nostri anni, l’impegno per i più deboli con “Quartieri Tranquilli”. La giornalista Lina Sotis si racconta con ilLibraio.it in occasione dell’uscita del Nuovo Bon Ton: “Il sesso? Non si fa più. Il nostro vero compagno è lo smartphone. Oggi la vera eleganza è essere educati…”

Tenete d’occhio Lina Sotis. Ogni volta che esce un suo libro significa che il costume è cambiato e tocca adeguarsi al colore del tempo e al Nuovo Bon ton, il titolo, appunto, del suo ultimo volume, appena uscito per Baldini+Castoldi e curato da Carlo Mazzoni.

In principio, nel 1984, fu la Milano da bere con la pletora di nuovi ricchi e potenti che avanzavano sulla scena senza sapere bene come comportarsi in società.

Nel 2005, quando uscì il Bon Ton aggiornato, le parole d’ordine erano sobrietà ed essenzialità. Oggi, come recita il sottotitolo del volume, “essere eleganti non è una questione essenziale. Essere educati sì“.

Insomma, Lina Sotis è il metronomo del nostro savoir-faire, il rabdomante che compulsando volgarità, piccinerie e vanità ci insegna, con acume e ironia, le buone maniere e l’arte dell’eleganza.

L’appuntamento è a casa sua all’ora del tè. Mi viene incontro in ascensore, elegantissima nel suo portamento: “Cerco di guadagnarmi la vecchiaia”, dice con un termine desueto ma che a lei piace molto, “a Milano noi vecchi siamo quarantaseimila, se ci mettiamo insieme, possiamo dare un nuovo volto alla città”.

Accanto alla scrivania, campeggia un suo ritratto realizzato da Marco Santambrogio. Sopra, una copia del Corriere della Sera, dal quale, per decenni, nella rubrica Bagatelle (il nome glielo suggerì il suo mentore Roberto Calasso), ha narrato, amata e odiata, i momenti più segreti della borghesia milanese.

Il nuovo bon ton Lina Sotis

 

Cos’è cambiato dall’ultimo Bon ton?
“Tutto. All’inizio, infatti, non ero molto convinta di scriverlo”.

Chi l’ha spinta?
“Un giovane collega, Carlo Mazzoni, che conosco da quando aveva tre anni e io coccolavo chiamandolo ‘bacio stretto’. Era il nipote di un mio amore dell’epoca. Ci vedevamo ogni tanto finché un giorno arriva e mi fa: ‘Lina, perché non scriviamo un manuale di Bon Ton insieme?'”.

E lei?
“Gli dissi che io sapevo le cose mie, datate e un po’ retrò, che oggi non servono a nulla perché è cambiato tutto. Ha insistito e alla fine mi ha convinta. E ho scoperto molte cose nuove”.

Tipo?
“Per esempio che non si dice più omosessuale, ma fluido. Io ero rimasta a quella cosa desueta per cui si era omosessuali ma senza dirlo. Oggi le definizioni non esistono. Si sta con chi si ama e chi piace, basta che non ci sia violenza, l’unica cosa che deve farci paura”.

La cafoneria del nostro tempo?
“Il cellulare sul tavolo a cena e il selfie. Ogni decennio ne ha avuta una. Negli anni Sessanta era il cofanetto per i libri in pelle rossa con fregi d’oro. Negli Ottanta, una casa tutta velluti, fiorellini e passamanerie. Nei Novanta, l’abbronzatura. Nel 2000, la tagliata con la rucola”.

Cosa non esiste più?
“Le figlie delle mie amiche si lamentano che non ci sono più gli uomini che corteggiano. È scomparso il ballo lento che era fondamentale per capire se lui ti corteggiava sul serio o no. Se ti stringeva, come lo faceva, quanto. Oggi pure il ballo è un’esibizione di se stessi”.

Ci sono le app di dating online.
“È un corteggiamento, se possiamo chiamarlo così, solitario. Una variante del narcisismo. La cosa migliore resta guardarsi negli occhi”.

Lei è stata corteggiata?
“Moltissimo. Ero proprio una ragazza avvenente. A essere bella hai sempre l’impressione che la vita ti debba qualcosa. Invece non è vero, devi andarti a cercare tutto e io per molto tempo non l’ho capito”.

Che infanzia è stata la sua?
“Felicemente complicata. Mia madre è morta dandomi alla luce, papà Gino, che è morto quando io avevo tredici anni, era uno dei più celebri matrimonialisti d’Italia. È riuscito a far cancellare dalla Sacra Rota le nozze di Mussolini con Claretta Petacci. Quando andavo a trovarlo nel suo studio c’erano Guttuso, De Chirico, Rossellini, De Sica, insomma tutti quelli che volevano l’annullamento dei loro matrimoni. Annullava anche le nozze di molte belle signore tipo Ingrid Bergman e poi portava le ‘annullate’ in viaggio di dimenticanza”.

Dove è cresciuta?
“Da un collegio all’altro. Al Mary Mount, un posto per ragazze snob. D’altra parte prendevamo lezioni dalla direttrice, la contessa Palmieri. Prima regola: le signorine non entrano mai in cucina e la schiena deve essere sempre dritta. D’estate era d’obbligo fare vacanze di un certo livello e mi spedivano dalle Orsoline a Cortina. C’erano due suore, madre Felicita e suor Felicissima, che erano deliziose. Lì conobbi il mio futuro marito”.

Racconti.
“Eravamo tutte adolescenti. Ogni settimana le suore organizzavano un tè aperto ai giovani e in uno di questi incontri Alberto Persani mi presentò un signore milanese, Gian Marco Moratti. Fu quasi un colpo di fulmine, anche se non sapevamo di fare una cosa terribile”.

Lina Sotis

Quale.
“Io provenivo dall’intellighenzia romana terribilmente snob che trovava cafonal parlare di soldi. Lui era il classico industriale milanese molto facoltoso. Restai incinta e quando andai dal mio tutore, Enzo Storoni, uno dei fondatori con Malagodi e mio nonno Emilio del Partito Liberale, per dirgli che volevo sposarmi, lui non era d’accordo: ‘Aspettate qualche anno, avete un’educazione troppo diversa, magari non va bene’. ‘Non posso, sono incinta’. Gli venne un colpo: ‘Hai disonorato la famiglia ma ti accompagnerò all’altare'”.

E arriva a Milano come la signora Moratti.
“M’innamorai subito della fretta della città e dei miei suoceri, Angelo ed Erminia. Erano deliziosi, carinissimi. Mi regalavano solo abiti nerazzurri e con l’Inter abbiamo vinto tutto. Ogni domenica andavo in tribuna d’onore a San Siro. Poi, ovviamente, alla Scala dov’ero la ‘signora del signore’ e i rotocalchi si divertivano a mettermi in competizione con Annina Rizzoli, Luisella Riva. Eravamo solo ragazzine ingenue”.

Ha seguito i funerali di Berlusconi?
“Ha segnato un’epoca che ora è finita. A metà degli anni Ottanta, papà (il suocero Angelo Moratti, ndr) mi chiese di fargli conoscere gli industriali emergenti e organizzai una colazione con Berlusconi, Marco Tronchetti Provera, Barilla e altri. Dopo qualche giorno, per ringraziarmi, Silvio mi mandò una bellissima batteria di pentole che uso ancora”.

Come diventa giornalista?
“A Milano avevo bisogno di lavorare ma non sapevo fare nulla, tranne che camminare dritta e sfoggiare un portamento perfetto. Decisi che il mestiere più bello era quello di giornalista. Ho fatto qualsiasi cosa: mille didascalie, le brevi, persino vendere spazi pubblicitari per Vogue insieme a Urbano Cairo che lo faceva per Mediaset. Poi Giulia Maria Crespi mi assunse ad Amica. Ma io sognavo un quotidiano”.

Il Corriere.
“Quando lo comprò Angelo Rizzoli gli dissi: ‘Angelo, vorrei scrivere in un quotidiano’. E lui: ‘Certo, però te lo devi meritare. Che ne dici di lavorare alle sei del mattino al Corriere d’informazione?’. Risposi di sì: ‘Anche se non potremo più andare a ballare la sera’. Arrivavo alle sei meno cinque. Il mio compagno di banco era Ferruccio de Bortoli che aveva 23 anni. Ero agli Spettacoli, a Milano nasceva il Piccolo Teatro e Paolo Grassi mi chiamava la Caval(Lina)imbizzarrita. Poi il giornale chiuse e ci portarono entrambi in cronaca al Corriere della Sera. Mi sentivo baciata dalla fortuna”.

Prima e unica donna in cronaca.
“Sembravo Biancaneve con ventinove nani. Non sapevo fare molto, i colleghi, deliziosi, m’insegnavano tutto”.

Quando diventa Lina Sotis, la penna di costume più temuta d’Italia?
“Alla fine degli anni Settanta. Un Natale il mio amante di turno festeggiò in famiglia con la moglie. Ero frustrata. Il direttore Franco Di Bella mi chiese una lettera natalizia per i lettori. Io scrissi con arguzia la lamentela dell’amante negletta. Andò in prima e fu un successo. Venimmo travolti da migliaia di lettere”.

E il Bon ton?
“L’idea venne al mio mentore e maestro Roberto Calasso, che mi aveva insegnato a scrivere corto e breve, alla Karl Kraus. ‘Lina, sono le cose che sai, perché non scrivi un libro?’. Sulle prime rifiutai: ‘A chi vuoi che interessi?’. Mi sbagliavo. Stavano arrivando i berlusconiani che volevano sfondare ma sbagliavano tutto: a tavola dicevano buon appetito, mettevano lo stecchino in bocca e dicevano piacere quando si presentavano. Anche le piccole cose che sapevo sul portamento diventarono di colpo preziose”.

È vero che Eugenio Scalfari la scoraggiò?
“Mi disse: ‘Non avrai mai successo, andiamo verso tempi in cui le etichette non contano. Vuoi diventare la nuova lrene Brin o Colette Rosselli?’. In realtà, essendo un mio corteggiatore, era molto seccato che dessi retta a Calasso”.

E invece fu un successo.
“Pensavo lo avrebbe comprato solo mio figlio Angelo e invece andò benissimo. Ha venduto oltre cinquecentomila copie ed è stato tradotto in sei lingue. Evidentemente, erano i tempi giusti. C’erano i vecchi borghesi che tirarono un sospiro di sollievo: ‘Allora esistiamo ancora'”.

Le Bagatelle sul Corriere erano lettissime. Ha mai avuto pressioni?
“Sì, ma tutte allegre e carine. Il direttore Di Bella mi diceva di mettere sempre più nomi, ma io non andavo mai oltre tre: ‘Chi c’è deve sentirsi prescelto’, rispondevo”.

È vero che nel 2001 Flavio Briatore le mandò centouno rose bianche per ringraziarla di averlo “stroncato”?
“Probabile, non mi ricordo. Ho ricevuto cose buffissime. Una volta cento rose rosse, spesso arrivavano peluche, lettere d’insulti”.

Lei non ha mai utilizzato il cognome dei mariti.
“Quando ho sposato Gian Marco Moratti era necessario. Dopo, quando la storia finì per colpa mia, perché mi ero innamorata di un playboy, milanista per giunta, non era più il caso”.

Un vezzo da femminista?
“Sì. Lo sono stata a lungo, ma a volte trovo irritanti le femministe. Qualche tempo fa ho proposto alla Casa delle Donne di partecipare a una serata coinvolgendo i detenuti di San Vittore in un’attività ri-educativa e sociale. Mi hanno risposto che i detenuti sono uomini. Una follia. L’uomo è un essere umano, avrà delle cose diverse da noi ma qual è il problema“.

Cos’altro non sopporta?
“Le donne troppo rampanti, aggressive, che si prendono troppo sul serio. La carriera è bella, ma il sentirsi sicuro con gli affetti e avere una bella famiglia lo è di più”.

Oltre al corteggiatore, gli altri tipi maschili che non esistono più?
“Il protettore in senso tenero, quello che vuole veramente proteggerti e non pensa solo al sesso. In generale, questo è un tempo virilmente confuso. C’è un esercito femminile vittorioso ma spaventato dalla perdita del ‘nemico’ che si accontenta di ciò che resta sul campo. Poco”.

Il sesso.
“Quando ero giovane io si faceva e si desiderava farlo tantissimo perché era peccaminoso e il peccato, si sa, è bellissimo. Oggi si fa molto meno. L’unico vero partner della nostra vita è lo smartphone. Io non posso andare in giro con il bastone perché c’è gente che ipnotizzata dallo schermo non mi vede e rischia di farmi stramazzare a terra. Sono tutti poveracci che soffrono di solitudine”.

Le parole che non sopporta?
“Caro e cara. Il signor Paolo da cui vado a comprare il pollo mi disse una volta: ‘Cara, cosa posso darti?’. Gli ho detto: ‘Chiamami Lina, altrimenti mi sento una cara tra mille altre care’. Dire ‘caro’ a una persona che non conosci è brutto, poco amicale ed empatico. Mi sa tanto di pronto soccorso americano. Ogni periodo ha avuto i suoi vezzi ridicoli. Negli anni Sessanta era tremendo sentire gli sgallettati e le sgallettate dire ‘divino’, poi negli Ottanta e Novanta ‘io ci sono’, nei Duemila ‘ciao zio'”.

I salotti a Milano.
“Non esistono più. Bisogna ricrearli, ma senza chiamarli salotti, perché vedersi tra amici e parlare più o meno la stessa lingua è qualcosa che galvanizza. Qualche sera fa, sono andata da un amico di quartiere che ha 90 anni. Eravamo a tavola in otto. Ma sa che ci siamo proprio divertiti a mangiare e chiacchierare insieme?”.

Il salotto perfetto?
“Quello misto. Non deve mancare mai un fluido, una bella donna, una donna intelligente, un personaggio volgare da guardare perché ti dà sempre un brivido e puoi parlarne male. Ai tempi miei, snob e rivoluzionari, il salotto più bello era quello della zarina di Milano, Giulia Maria Crespi, che con grande coraggio invitava Mario Capanna insieme a Spadolini. Vedere insieme questi due mondi diversi era strano e divertente. E poi rimpiango molto quelli allegri”.

La Crespi come sceglieva?
“Scartava commendatori e imprenditori perché parlavano sempre di denaro, cosa volgarissima. Puntò tutto sulla cultura. All’epoca andavano di moda le terze pagine dei giornali e gli intellettuali erano gran protagonisti. Tra questi, c’erano Eugenio Scalfari, Umberto Eco che una volta al Girarrosto mi disse: ‘Lina, dobbiamo scrivere sul Medioevo’. Tutti volevano fare qualcosa. Poi Massimo Cacciari, che piaceva tanto alle donne, e Carlo Ripa di Meana, che lavorava come commesso alla Feltrinelli ma si faceva chiamare conte. Il colmo dello snobismo. Erano i tempi dell’esibizionismo perché c’era qualcosa da esibire. Oggi cosa esibisci? Un po’ di passato e quello che vorremmo fosse il futuro. Ma su questo non ho le idee chiare”.

Lei cosa vorrebbe?
“Che l’età che va dai 74 ai 100 anni diventasse un’età forte, non scartoffia com’è oggi. Quel genio di Andrée Ruth Shammah (regista teatrale e direttrice del teatro Franco Parenti, ndr) ha pensato di dedicare una stagione alla ‘grande età’ come la chiamavano gli antichi greci. Oggi nessuno ha il coraggio di dire vecchi, tutti dicono anziani che è una parola orribile”.

Oggi Milano com’è?
“Si mangia e basta, ci sono tavolini e dehors dappertutto. Sono stata alla Scala qualche tempo fa, e ho visto tutti che si facevano i selfie. Sono andata da una maschera e gli ho detto: ‘Vengo qui da cinquant’anni, ma cos’è diventata la Scala?’. Mi ha risposto che la parola d’ordine che arriva dall’alto è inclusività, altrimenti non viene più nessuno. Mi è venuta voglia di non andarci più. Oggi sono venuti meno i punti di riferimento, si fa fatica a trovare un bandolo”.

In che senso?
“Prima arrivavi a Napoli e dicevi Mirella Barracco e ti si aprivano tutte le porte. Rimpiango che non ci sia qualcuno che ti dica: ‘Vai a vedere questo, fai quest’altro, incontra Tizio’. Oggi il posto più bello di Napoli è la metropolitana. Io vorrei portare in quella di Milano delle mostre che illustrino la storia della città cominciando dalle Cinque Giornate. Così uno mentre aspetta impara”.

Lei come si guadagna la vecchiaia?
“Con la mia associazione, Quartieri Tranquilli, cerco di darmi da fare per una Milano operosa che faccia lavorare i vecchi. Il sindaco Sala mi ha dato una sede in via Marsala, vicino al Corriere. Ai miei colleghi terrorizzati dall’idea di annoiarsi in pensione dico: ‘Non vi avvilite, venite qui, facciamo qualcosa per la città e aiutiamo gli altri. Chi meglio di un cronista conosce le situazioni di difficoltà e disagio?'”.

Cosa fa con Quartieri Tranquilli?
“Tante cose. Organizzo eventi culturali in periferia, abbiamo lanciato l’iniziativa ‘Adotta un nipote’ con gli studenti del Politecnico che vanno a trovare un nonno che non può uscire di casa e donano alle sue giornate un pezzo d’affetto, un po’ di compagnia e di aiuto”.

La donna, o le donne, più eleganti di Milano?
“Quelle generose”.

Mi faccia qualche nome.
“Marina Caprotti, figlia di Bernardo, il fondatore di Esselunga. Grazie alla sua generosità con Quartieri Tranquilli abbiamo distribuito quarantaseimila tonnellate di cibo in periferia: Gratosoglio, Corvetto, Quarto Oggiaro. L’Enel ha messo a disposizione le borse e i volontari per la distribuzione. Un’altra donna elegante d’animo è Ida Salvo, consigliere della fondazione dell’Ospedale pediatrico Buzzi. È molto vitale, ha messo insieme tante persone che fanno qualcosa per il Buzzi”.

Fare del bene è il nuovo Bon ton?
“È un’educazione civica. Adesso sto andando in via Vivaio per partecipare a un sit-in di protesta contro la chiusura della scuola per disabili che vogliono spostare in ambienti molto più scomodi per i ragazzi”.

Il politico più elegante?
“Non seguo più la politica. Mi piaceva molto Mario Draghi e trovo il presidente Mattarella un gran bel vecchio”.

Lei crede in Dio?
“Sì, forse mi ha anche aiutato qualche volta. Ho una Madonnina vicino al letto. Sono cattolica ma vado volentieri al Tempio, e ammiro come gli ebrei si sono comportati duranti la pandemia, erano molto più vicini tra di loro, si aiutavano di più rispetto a noi cattolici e non hanno mai sospeso i riti”.

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Fotografia header: Lina Sotis - foto di Lorenzo Capellini

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