Nei diciassette racconti che compongono “Lingua nera” di Rita Bullwinkel i piani di realtà e sovrannaturale sono mescolati. A metterli in comunicazione è il corpo, inteso tanto come carne (organi, tessuti, legamenti) quanto come un insieme di limiti labili, che è il percorso principale attorno cui si sviluppano le vicende, le emozioni, le oscurità dei personaggi e delle storie. Il suo medium è la lingua, come linguaggio e come muscolo… – L’approfondimento

Uno dei miei passaggi preferiti de L’inconfondibile tristezza della torta al limone di Aimee Bender (Minimum Fax, 2011, traduzione di Damiano Abeni e Moira Egan) è: “Io a tavola non parlavo perché ero tutta intenta a sopravvivere al pasto. Dopo la baraonda che mi aveva fatto finire al pronto soccorso non volevo più far sapere agli altri niente della mia esperienza. Ci provi, vieni presa per pazza sfasciata, e ti nascondi sottoterra“. 

Nel romanzo di Bender, la sensazione di un corpo incontrollabile e capace di spingersi al di là di se stesso è aiutato dal cibo e dal potere sovrannaturale sulle emozioni che è in grado di originare, lo stesso che ho ritrovato nei diciassette racconti d’esordio di Rita Bullwinkel, raccolti in Lingua nera (titolo originale: Belly Up), tradotti da Leonardo Taiuti per Black Coffee. La sostanziale differenza è che in Bullwinkel i piani di realtà e sovrannaturale sono mescolati. Non si presuppone né si richiede uno sforzo per entrare nei mondi che questi racconti rappresentano, e il patto che il fantastico chiede al lettore è del tutto ridondante. 

Rita Bullwinkel, Lingua nera

I due piani si confondono perché hanno un terreno comune: nella sfera in cui i fatti si verificano e i personaggi si muovono l’unica regola in vigore è che tutto può accadere. Un serpente si racconta come una pera su un albero, due ragazzine adolescenti sono ossessionate dal cannibalismo e dagli zombie, una donna traumatizzata da un incidente d’auto impazzisce, un uomo consola vedove riempendo – letteralmente – il vuoto fisico dei loro letti, in un momento di crisi economica una donna trova su Craiglist un ragazzo che faccia da reggiseno alla figlia.

I racconti di Rita Bullwinkel sono cortocircuiti perfetti, e passando dall’uno all’altro il cambiamento di scena equivale al mutamento di se stessi: i personaggi sono costantemente presi dal desiderio di cambiare, per i più disparati motivi, e sono messi di fronte a un atto pericoloso da approcciare, ma che allo stesso tempo può salvare loro la vita.

La salvezza è un obiettivo non dichiarato né perseguito, che si manifesta come un’insinuazione: i personaggi non si interrogano sull’opportunità di una conclusione, ma semplicemente si muovono, interagiscono, lasciano situazioni dolorose, ingiuste o noiose per il semplice impulso di farlo. Sentono un bisogno quasi primordiale di reagire al mondo che li circonda, come se il corpo desse loro il via ma nascondesse il punto di arrivo presupposto, una scoperta emotiva, etica o puramente fisica. Per esempio, nel racconto che dà il titolo alla raccolta, la ragazzina lecca i fili di una presa elettrica e si trova ad ammettere: “Il tuo corpo lo puoi rovinare solo fino a un certo punto“.

A mettere in comunicazione continua il piano della realtà con quello del sovrannaturale è proprio il corpo, inteso tanto come carne (organi, tessuti, legamenti) quanto come un insieme di limiti labili, che è il percorso principale attorno cui si sviluppano le vicende, le emozioni, le oscurità dei personaggi e delle storie. Il suo medium è la lingua, come linguaggio e come muscolo.

Il lessico di Lingua nera è ardito, lo stile confessa l’ambizione di sfidare apertamente il lettore, provato dall’assurdità a cui deve sottostare e dalla profondità che può raggiungere. Ma dalle lingue-muscolo dei personaggi di Bullwinkel si originano i movimenti, i sensi sono le vie d’accesso alle emozioni, all’aldilà, alla prigione di Malcolm Danvers, a luoghi fisici o mentali, quotidiani ma illuminati ai lati.

In Lingua nera il corpo è ora fantasma, ora vita, in cambiamento continuo, severamente analizzato, percepisce se stesso ma soprattutto la connessione con quello altrui. Attorno a questo sentire si dipana lo sguardo d’interesse di Rita Bullwinkel per le relazioni umane. 

L’autrice mette in scena una continua ambivalenza. In Arpa la donna traumatizzata dall’incidente d’auto esperisce una vita parallela: “Quando finalmente fui dimezzata e felice, portai le due me in macchina e avviai il motore”. In Phylum la donna e l’uomo del racconto si interrogano sull’intimità e su loro stessi. In Bruciato il cibo mette in comunicazione i vivi e i morti: “Mia madre diceva sempre che la via per il cuore di una donna passava dallo stomaco, ma non avevo mai pensato che starci dentro, allo stomaco, fosse tanto brutto”. In Arredamento i mobili riempiono una casa impossibile e si caricano della rabbia di Ursula: “Pensai a lui in prigione, smembrato e privo di vita, e me lo figurai mentre si rendeva finalmente conto di non essere più un uomo, ma soltanto l’oggetto di una casa che non sarebbe mai stata costruita né visitata […]”.

Il doppio accompagna chi legge: esiste un mondo possibile e un mondo probabile. L’unico modo per conoscerli entrambi è un’esperienza corporale, che sia infilarsi nel letto di un morto per poi parlarci alla finestra o lavorare come reggiseno umano. 

Ma il doppio è anche divisione: in Impasto fritto, ad esempio, l’amore adolescenziale, descritto brutto e senza pretese, è un’esperienza spaccata in due, tesa fra il futuro e il presente, in cui i due protagonisti cercano qualcosa e sanno di doverci arrivare. Il narratore assiste all’amore che si sviluppa in due modi diversi, su due scale, con due prospettive e il lettore si trova a stare a lato ed essere completamente assorbito, ad esistere tanto nella realtà quanto nell’altrove, definiti entrambi dall’assurdo.

LEGGI ANCHE – This Flesh Container We Call a Body: An Interview with Rita Bullwinkel (da theparisreview.org)

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