Sabato 6 luglio la scrittrice Leslie Jamison sarà ospite a Capri alla quattordicesima edizione del festival “Le Conversazioni”. In anteprima su ilLibraio.it il suo intervento, ispirato dal tema dell’edizione 2019 del festival, il “pregiudizio”
Sabato 6 luglio la scrittrice Leslie Jamison sarà ospite a Capri alla quattordicesima edizione de Le Conversazioni, il festival internazionale ideato da Antonio Monda e Davide Azzolini (che si svolge a Capri, Roma, Napoli e New York), dedicato quest’anno al tema “Pregiudizio”. L’incontro si terrà ella Piazzetta Tragara alle ore 19.
Può interessarti anche
Nata a Washington, Jamison è cresciuta a Los Angeles e ha vissuto nello Iowa, in Nicaragua, a New Haven, dove ha svolto diversi lavori temporanei prima di affermarsi come scrittrice. È l’autrice del romanzo The Gin Closet (2010), finalista del Los Angeles Times Book Prize e della raccolta di saggi The Empathy Exams (2014), bestseller del New York Times. In Italia è stato tradotto nel 2019 The Recovering: Intoxication and Its Aftermath (2018), con il titolo Rinascere – Alcol, intossicazione e storie di guarigione (Mondadori). La Jamison insegna alla Columbia University e i suoi contributi sono stati pubblicati sul New York Times Magazine, sulla New York Times Book Review, su Harper’s e su Oxford American. A settembre sarà pubblicata la sua nuova raccolta di saggi, Make It Scream, Make It Burn.
In anteprima su ilLibraio.it, il testo del racconto che Leslie Jamison leggerà al festival, tradotto da Martina Testa, e che si lega al tema dell’edizione 2019.
L’usignolo a due teste
di Leslie Jamison
Il dottor Pancoast comincia con la loro classificazione e i termini da cui deriva: terata catadidyma, dal greco per “gemello” e “mostro”. Raccoglie l’eredità di questa etimologia, le chiama “mostro a due teste” e “mostro composito di duplice sviluppo”. Gli ci vuole più di una pagina prima di dire che si chiamano Millie e Christine. E lo fa così: «Questo esempio vivente di pygopagus symmetros si chiama Millie e Chrissie Smith».
In verità la madre le aveva chiamate Millie-Christine – un nome solo, col trattino in mezzo – perché le considerava una persona sola. Era questa una delle domande che strutturava la loro esistenza: se fossero un’entità plurale o singolare. Il censimento le riportava come due persone diverse, ma loro si consideravano unite. «Anche se parliamo di noi al plurale», scrissero una volta, «ci sentiamo come una persona sola». Nate in schiavitù nel 1851 e unite all’altezza della spina dorsale, queste due gemelle siamesi erano sempre state considerate – dallo stato, dai loro proprietari, dalle varie persone che se ne erano occupate – come totalmente soggette ai desideri altrui.
Per il dottor Pancoast erano un bizzarro e delizioso esemplare. Come racconta nel suo articolo del 1871 sulla Photographic Review of Medicine and Surgery, si sentì chiamato a indagare e documentare la natura della loro congiunzione. Le trovava di piacevole aspetto nonostante la razza: “anche se la carnagione era quella marrone scuro del nero americano, e il naso e le labbra possedevano i tratti della loro razza, l’espressione dei loro volti era così amabile e intelligente, e le loro maniere così curate, che produssero su di me un’impressione assai gradevole”. Ammira la coordinazione dei loro movimenti, il fatto che «i loro corpi accompagnano armoniosamente il loro passo fluido mentre camminano avanti e indietro, corrono rapide, o danzano la chotis, la polka o il valzer». Quando loda la loro intelligenza, lo fa col tono di chi loda l’intelligenza quando emerge da luoghi inaspettati. Di chi è soprattutto fiero di sé per averla notata. Racconta di aver fatto passare una scarica elettrica lungo il loro corpo condiviso per vedere quanti dei loro muscoli si contraevano. Avrà prima chiesto il permesso alle gemelle? Gli avrà fatto male? Impossibile saperlo. Non lo dice. Con grande nonchalance descrive il processo dell’esame dei genitali. Fa riferimento agli altri “gentiluomini” che concordano con la sua valutazione.
Il racconto del momento in cui il dottore le fotografa è l’unico punto del case study in cui le gemelle gli oppongono resistenza: «Si aggrapparono strette alle loro vesti, come si può vedere, e fu solo dopo insistite preghiere che si disposero al compromesso di lasciarsi fotografare tenendosi addosso tali panneggi. L’espressione dei volti ne dimostra il disappunto, laddove di norma i loro lineamenti esprimono grande docilità di carattere».
Nella fotografia, Millie punta gli occhi altrove mentre Christine guarda l’obiettivo con sospetto. Si tiene stretta addosso più che può una coperta, da cui sbucano un paio di calzettoni bianchi alti fino al ginocchio e degli scarponcini neri coi bottoni. Le cosce si vedono comunque, e i suoi occhi sono sensibili a tutto. Ha uno sguardo di ferocia repressa.
Seduta negli archivi della New York Academy of Medicine, quasi centocinquant’anni dopo che è stata scattata la foto, guardo queste donne e vorrei conoscere più a fondo il loro disagio. È la parte più umanizzante dell’articolo, quella in cui il dottore descrive la loro riluttanza a farsi fotografare. Prendono vita non in ciò che hanno rivelato al suo sguardo, ma in ciò che non hanno voluto rivelare. Ciò che non rivelano neanche a me.
Gli archivi si trovano di fronte a Central Park, in un maestoso edificio in stile romanico su Fifth Avenue finanziato dai Rockefeller. Un motto in latino sopra l’ingresso recita: Post Mille Secula Præscindetur Occasio Aliquid Adjiciendi, che significa: «A chi nascerà fra mille secoli non sarà negata l’occasione di aggiungere qualcosa». Sfoglio le pagine ingiallite della Photographic Review of Medicine and Surgery in un’elegante biblioteca dalle pareti rivestite di legno, piena di eleganti volumi i cui dorsi striano gli scaffali di rosso porpora stagionato, di verde bosco, di azzurro scuro. Questo posto sembra un accumulo di strati geologici di denaro, e di voci, e di altre voci che esistono soprattutto come assenze.
Guardando la foto di Millie e Christine, sprofondo nel duplice senso di nostalgia e di futilità proprio degli archivi: il profondo desiderio di conoscere queste donne – la loro complessità, il loro orgoglio, la loro indignazione, la loro gioia e il loro ardente amore reciproco – insieme alla consapevolezza che non potrò mai conoscerle davvero. Le immagino una volta uscite dall’ambulatorio parlare della visita dal dottor Pancoast, commentando deluse che era stato un pagliaccio, che aveva capito poco e niente di tutto il complicato traffico fra i loro diversi intelletti. Le immagino stanche di tutti quei balletti. Ma più ci penso, più le vedo allontanarsi. Più febbrilmente invento la loro vita, più queste invenzioni cominciano a riguardare me, e sempre meno loro. Meglio riconoscere le lacune, a volte, piuttosto che tentare di colmarle.
***
Invece di raccontarmi storie sulle gemelle, mi concentro sulle storie che raccontavano loro su di sé. A diciassette anni scrissero un’autobiografia: The History of the Carolina Twins: Told in “their own peculiar way” by “one of them” [La storia delle Gemelle della Carolina. Raccontata “in un modo tutto loro” da “una delle due”, n.d.t.]. La narrazione comincia con la loro nascita, descrivendo come la “vecchia zia Hannah”, una “fidatissima balia, la cui specialità era stare intorno ai nuovi arrivati della nostra razza e fornirgli le prime cure” non riuscisse a capire se fossero un neonato umano, “o qualcos’altro”. Il racconto segue la loro vendita a un nuovo padrone “buono di cuore” che le riunisce con la famiglia (acquistando tutti quanti), e poi il loro rapimento da parte di un avido usurpatore, che le porta in Inghilterra per cercare di sfruttare il loro potenziale commerciale. Verso la fine della storia, le gemelle spiegano come vorrebbero essere viste: «come qualcosa di totalmente scevro da imbrogli – una bizzarria vivente», ribadendo: «siamo state esaminate nella maniera più minuziosa da fin troppi professionisti della medicina perché qualcuno possa considerarci un imbroglio». A latere, nei toni compiaciuti della voce del dottor Pancoast, sentiamo quale potesse essere il vero significato di quel “più minuziosa”: scosse elettriche, le mani ruvide di un uomo curioso. Ma le gemelle ci ricordano il motivo per cui insistono tanto su questo strano genere di autenticità: «dal successo della nostra esibizione dipendono la nostra felicità e il benessere di altri».
Sarebbe facile rappresentare Millie e Christine come vittime passive – tastate e sondate dai dottori, comprate, vendute, scambiate e rapite – quando in realtà erano tutt’altro. Portarono il loro spettacolo in tour. Era un modo di riappropriarsi dello spettacolo da circo in cui erano già state trasformate, o quantomeno un modo per trarne profitto. Durante una sola stagione nel circuito delle fiere riuscivano a mettere insieme anche 25.000 dollari. Arrivarono a guadagnare abbastanza da comprare la piantagione in cui erano cresciute. Mantennero economicamente i loro nove fratelli e sorelle. Mantennero economicamente la famiglia del loro ex proprietario. Fondarono una scuola per bambini afroamericani. Passarono sette anni a viaggiare per l’Europa, imparando a parlare correntemente il francese, lo spagnolo, il tedesco e l’italiano. Christine cantava con voce di alto, Millie di soprano, e nel cantare armonizzavano le voci. Venivano chiamate l’usignolo a due teste.
*
Mi sono entusiasmata nello scoprire che le gemelle avevano pubblicato la loro autobiografia – che la loro voce non era stata completamente messa a tacere, o lasciata ai margini di articoli scritti da medici bianchi che gli avevano infilato le dita dentro, le avevano trafitte con scosse elettriche e avevano disegnato immagini dei loro genitali da far vedere “a chi nascerà fra mille secoli”. Avevano parlato per sé, e io potevo ascoltarle.
Era una pura illusione, ovviamente, credere che potessimo entrare in rapporto diretto. Le gemelle definivano la loro autobiografia “una storia semplice e senza abbellimenti”, ma ovviamente era un libro che conosceva bene i desideri dei suoi lettori. Sulla pagina, le gemelle ostentano una certa devozione verso il loro «buon padrone, che a noi sembrava un padre […] era educato, generoso, gentile, paziente, e amato da tutti», nonché una gioviale disponibilità a essere viste come bizzarrie. La prima riga del libro recita: «Siamo, in effetti, persone strane, giustamente considerate sia dall’occhio della scienza che da quello della gente comune la più straordinaria bizzarria che il mondo della natura abbia mai prodotto». Quest’incipit di fatto assolve qualunque senso di colpa che il lettore possa provare nel trattare in un certo modo queste gemelle, perché dice: Noi già ci vediamo così. Il loro motto pubblico era: «Come Dio ha ordinato, noi abbiamo obbedito».
È impossibile sapere cosa pensassero davvero le gemelle del loro padrone, o del loro status di “ottava meraviglia del mondo” – quanta della loro cordialità fosse sincera, quanta finta, e se i confini fra queste categorie siano mai così rigidi come a volte ci piacerebbe credere. Si può solo dire che non lo sapremo mai davvero. Sappiamo solo che riuscirono a fare soldi sfruttando i sistemi che avevano cercato di privarle della loro libertà e della loro umanità. Sul frontespizio dell’autobiografia campeggia la seguente dicitura, stampata in verticale (due volte) lungo ciascuno dei due corpi congiunti: venduta dagli agenti a loro (delle gemelle) personale beneficio, al prezzo di 25 cents. Lo stile è condiscendente ma i profitti non erano inventati. Come diceva Sojourner Truth quando vendeva il proprio ritratto per sostenere le cause degli schiavi liberati: “Io vendo l’ombra per sostenere la sostanza”.
Le gemelle concludono l’autobiografia con le parole di una canzone che cantavano spesso: «Dobbiamo ammettere che, come opera letteraria, non ha molti meriti», confessano, «ma rende bene l’idea dei nostri sentimenti». La prima strofa rivendica efficacemente il loro diritto a raccontarsi, piuttosto che essere un mero oggetto degli sguardi altrui: «Non è modesto parlare di sé / Ma squadrata ogni dì da capo a piè / Parlo liberamente di ogni cosa / A volte con gente che mi guarda curiosa».
Dicono di «parlare liberamente di ogni cosa», ma la forma rigida della poesia – con le rime che costringono le fini di verso a una gradevole simmetria – ci ricorda che la loro libertà agiva all’interno di una serie di vincoli. Le gemelle dicevano quello che potevano dire. Le loro parole ci chiedono di rifiutare la certezza della convinzione di aver sentito “tutto”, in nome della conoscenza di un più duraturo mistero. Restiamo persone curiose. È l’usignolo a due teste, che fra le righe canta in un modo tutto suo. Una voce parla dalle pagine del libro. Un’altra voce ci dice che c’è moltissimo che non sentiremo mai.