Tommaso Scotti vive in Giappone dal 2010 ed è all’esordio nel romanzo con “L’ombrello dell’imperatore”. Su ilLibraio.it parla della sua passione per i manga, cominciata quando aveva 12 anni, e della crescita di attenzione che il genere sta vivendo anche nel nostro Paese

Il giorno non lo ricordo, il mese sì. Era gennaio. Gennaio 1997. Camminavo spedito su via Poggio Verde verso l’incrocio con via Casetta Mattei nella periferia di Roma. Un cappello calzato sulle orecchie, la tramontana sulla faccia e le mani ficcate in tasca. Avevo 12 anni e un appuntamento importante: stavo andando in edicola a comprare Zio Paperone.

Ok, forse un inizio un po’ troppo drammatico. In effetti però, stava per succedere qualcosa che avrebbe segnato un pezzo della mia vita. Perché quel giorno non comprai mai Zio Paperone. Mentre stavo per pagare, il mio sguardo fu rapito da un fumetto arancione sugli scaffali alla mia destra. Guardai meglio, e un brivido mi frustò le terminazioni nervose. In copertina c’era un eroe che conoscevo benissimo me che, fino ad allora, avevo visto solo in tv. Un uomo pieno di muscoli con lo sguardo glaciale, la maglietta in mille pezzi, e sette cicatrici sul petto. Era il numero 1 di Ken il Guerriero.

l numero 1 di Ken il Guerriero

Dissi subito all’edicolante che avevo cambiato idea e afferrai quel piccolo tesoro. Cinquemila lire tonde. Fu quanto costò il mio primo manga.

Quando tornai a casa mi fiondai sul letto e tuffai il naso in un nuovo mondo. I manga erano in bianco e nero, alternavano testo fitto a disegni a tutta pagina, c’erano segni misteriosi e, soprattutto, si leggevano al contrario! Da destra a sinistra. Pazzesco! E poi le pagine odoravano di ignoto, di novità, di scoperta. Una botta così inebriante che me la ricordo ancora adesso.

Il Giappone mi affascinava già da tempo, e innumerevoli volte avevo fallito nel tentativo di afferrare una mosca con le bacchette come il maestro Miyagi. I manga però mi offrirono un salto in una nuova dimensione. Anche se, all’epoca, c’è da dire che non erano molto popolari. Soprattutto tra “i grandi” non avevano una buona reputazione. Erano violenti, volgari e pure cari. E poi i cartoni giapponesi sono fatti col computer, lo sanno tutti! Quindi anche ‘sti manga una cosa tanto buona non potevano esserla, no?

No.

I manga sono una cosa buona, lo sono sempre stata. Del resto, sotto sotto, la maggior parte di essi non fa altro che promuovere valori come l’amicizia, il rispetto, il coraggio e l’amore. E lo fa attraverso disegni e storie avvincenti. Cosa può esserci di sbagliato in questo?

Nulla.

Almeno, così la pensavo io. Nel lontano ’97, però, nonostante l’illustrazione giapponese avesse già il suo gruppo di irriducibili seguaci, non si trattava certo di un grande pubblico. In tutta la scuola ricordo sì e no una manciata scarsa di persone con questa passione. Il termine stesso in fondo, manga, non era poi così conosciuto, e spesso dovevo spiegare di cosa si trattasse. Gli altri ragazzi sembravano più concentrati su parole di ben altro spessore, tipo pomiciare.

Io invece pensavo ai manga, ci spendevo sopra praticamente tutte le mie paghette settimanali, e quando potevo andavo a visitare qualche fiera. Ero talmente preso che attorno al 2000 scrissi per Luca Raffaelli una breve relazione su una mia visita all’Expocartoon. Sono stati poi gli sforzi di persone lui che, attraverso la divulgazione, l’ideazione e direzione di eventi del calibro di Romics, e soprattutto una passione sfrenata, hanno sempre più allargato l’audience di fumetto e animazione (di qualsiasi genere). Una sorta di cavalieri crociati armati di penne e colori, che hanno dedicato parte della propria vita a spianare la strada a un esercito di eroi bidimensionali venuti da paesi più o meno lontani. E tra questi eroi, molti, moltissimi, venivano dal Giappone.

Non posso poi non menzionare fiere storiche come il Lucca Comics & Games, che nel corso degli anni hanno dato sempre più spazio all’oriente invitando artisti del calibro di J. Ito, L. Matsumoto e H. Araki. Il tema dell’edizione del 2019 è addirittura stato scritto in giapponese: 人間になる (ningen ni naru: diventare umani). Vorrà pur dire qualcosa.

Insomma, è stato così, con una crescita lenta ma costante, che i manga hanno avuto la loro rivincita e sono diventati sempre più parte integrante della nostra società.

Certo, il fenomeno nel Sol Levante è ancora di ben altra portata. Quando nel 2010 andai per la prima volta a Tokyo ad esempio, rimasi colpito da come tutto fosse a tema One Piece, un’opera uscita nel ‘97 che, a suon di gom gom pistol, aveva stabilito un record dopo l’altro sbaragliando la competizione. Dragon Ball incluso. Non c’era negozio che non avesse merce a tema. Vestiti, giocattoli, dolcetti nei convenience store. Il pirata col cappello di paglia e la sua ciurma erano ovunque. Un successo stratosferico, coronato di recente dal raggiungimento del capitolo… 1000! Successo che mai avrei immaginato potesse essere eguagliato, figuriamoci superato. Invece nel 2016 esce Kimetsu no Yaiba (Demon Slayer) di K. Gotōge. 3, 2, 1, Boom! In Giappone non si parla d’altro. Basti dire che il film di animazione che di recente ne è stato tratto ha battuto persino La città incantata di Miyazaki, diventando il film più visto nella storia del Giappone con incassi per più di 250 milioni di euro.

kemono

E le novità? Nel 2021 io terrei d’occhio Kemono Jihen di S. Aimoto (la storia di un detective di Tokyo che si occupa di fenomeni paranormali), e il più recente Kaiju No. 8 di N. Matsumoto, ambientato in un Giappone sotto il continuo assedio di mostri, i kaiju, che le forze di difesa nipponiche devono tenere a bada. Anche Jujutsu Kaisen di G. Akutami, in cui una misteriosa setta di sciamani protegge gli esseri umani dagli spiriti maligni (manga che ha registrato un’impennata nelle vendite dopo l’uscita del cartone) potrebbe rivelare delle sorprese. Riuscirà qualcuno di questi a battere i record dei predecessori?

Chi lo sa. Ma forse non è così importante. Quello che conta è che ormai anche in Italia i manga abbiano trovato terreno fertile e stiano crescendo sempre di più. Di sicuro il 2020 li ha visti protagonisti, tanto che alcuni sono entrati addirittura nelle classifiche di vendita testa a testa con i romanzi. Demon Slayer è addirittura terzo, e l’andamento generale sembra destinato a continuare. Per quanto mi riguarda, non posso che esserne felice.

L’AUTORE – Classe ’84, Tommaso Scotti, laureato in matematica, seguendo una passione per le arti marziali si è trasferito in Oriente nel 2010. Ha poi conseguito un dottorato di ricerca a Tokyo, dove adesso vive e lavora. Nel tempo libero si dedica al pianoforte e alla calligrafia. L’ombrello dell’imperatore, in libreria per Longanesi, è il suo primo romanzo, e racconta le mille solitudini, i sorprendenti codici di comportamento e la disarmante bellezza del Giappone, introducendoci alla comprensione di una cultura tanto ammirata quanto fraintesa come quella del Sol Levante.

Il protagonista del libro è l’ispettore Takeshi Nishida della squadra Omicidi della polizia di Tokyo. Ha un secondo nome che pochi conoscono, ma che dice molto di lui. All’anagrafe infatti è Takeshi James Nishida. Perché Nishida è un hāfu: un mezzo sangue, padre giapponese e madre americana. Forse per questo non riesce a essere sempre accomodante e gentile come la cultura e l’educazione giapponese vorrebbero. Forse è per il suo carattere impulsivo, per quel suo modo obliquo e disincantato di vedere le cose e le persone che lo circondano, che non ha mai fatto carriera come avrebbe meritato. O forse è perché lui non vuole fare carriera, se questo significa mettere i piedi sotto la scrivania invece di usarli per battere le strade di Tokyo, città che ama e disprezza con altrettanta visceralità – e che allo stesso modo lo ricambia. Ma Nishida è eccezionale nel suo lavoro: lo dimostra il numero di indagini che è riuscito a risolvere. Fino al caso dell’ombrello. Un uomo, ritrovato morto. L’arma del delitto? All’apparenza, un comunissimo ombrello di plastica da pochi yen, di quelli che tutti usano, tutti smarriscono e tutti riprendono da qualche parte. Ma questo ombrello ha qualcosa che lo differenzia dagli altri. Un piccolo cerchio rosso dipinto sul manico e, soprattutto, un’impronta. E Nishida si troverà di fronte a un incredibile vicolo cieco quando scoprirà a chi appartiene l’impronta digitale del possibile assassino: all’imperatore del Giappone.

Fotografia header: Tommaso Scotti, foto diMarco Crisari

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