“Non mi importa parlare di me, non soffro più per il fatto che la scrittura sia diventata un luogo dove mi metto da parte” – Su ilLibraio.it, la riflessione dello scrittore Marco Balzano, tornato in libreria con “Quando tornerò”

Ho cominciato scrivendo un romanzo autobiografico. Si intitolava Il figlio del figlio (2010, Sellerio) e parlava di un viaggio che non ho mai fatto e che resterà, come per le anime del limbo dantesco, un desiderio senza speranza di realizzarsi: il nonno, papà e io che andiamo a vendere la vecchia casa di famiglia, ormai diroccata ma ostinatamente affacciata su un mare meraviglioso.

Il primo commento di mio padre quando lesse quel libro era stato pressappoco questo: “Ora che sei andato in giro a raccontare tutti i cacchi nostri sarai contento!”. E aveva ragione: il nonno era proprio identico alla realtà, e lui era descritto né più né meno che per come lo vedevo allora. Forse quello su cui ho mentito di più sono io.

Ammesso che sia riuscito a evitare il compiacimento, ho avuto senz’altro più di indulgenza verso di me che verso di loro. Anche nel secondo romanzo (Pronti a tutte le partenze, 2013, Sellerio) ho pescato molto dal mio vissuto, dal mio lavoro, dai miei trent’anni.

Poi qualcosa è cambiato. Italo Calvino nella prefazione a Il sentiero dei nidi di ragno, il suo primo romanzo, dice che si può essere completamente autobiografici solamente la prima volta, dopo la quale si consuma uno strappo che non si ricucirà.

Sono sicuro che prima o poi scriverò un nuovo romanzo autobiografico – anzi, conosco già per filo e per segno la trama – ma quello che dice Calvino resta vero: non sarà più uno strappo. Sarà forse ugualmente doloroso e coinvolgente, ma quella recisione è già avvenuta e non potrà ripetersi mai più.

Ogni volta che ci penso mi auguro che sarà un romanzo oltranzista, dove l’indagine viene portata alle estreme conseguenze, come accade nei romanzi di Annie Ernaux, in cui lo scavo storico e psicologico rimette in gioco il presente, lo illumina di una luce inquietante che senza l’operazione maieutica della scrittura rimarrebbe per sempre avvolto nelle tenebre.

Adesso, però, a interessarmi sono le storie che attraversano il mio tempo o, ancora meglio, le storie che non si raccontano. Si sa che sono accadute, che succedono, ma preferiamo non parlarne. Ecco, lo scrittore per me è una persona che ti fa girare la testa e voltare lo sguardo, che riesce a farti osservare ciò su non ti sei soffermato o, perché no, che ti vergognavi di guardare. Il romanziere ha la pazienza di snodare un racconto che porta a umanizzare una vicenda che, per quanto dolorosa sia, una volta conosciuta diventerà più vicina perché ce ne sentiremo più parte in causa.

Fare questo significa individuare una questione o avvertirla come urgente per le implicazioni che ha sulla nostra esistenza e su quella di chi ci circonda. Scrivere, così, vuol dire mettersi in gioco andandole a cercare, le storie, a incontrare chi se le porta addosso o le custodisce, chi le ha studiate o ne è stato testimone. Ecco cosa è cambiato: a differenza degli anni passati non potrei più scrivere un libro senza uscire di casa.

E siccome ho sempre misurato le mie ambizioni in termini di sacrificio e di quanto mi avvicinano alle persone, questo modo di abitare la letteratura calza meglio a quello che oggi sento di essere e che voglio provare ad essere. Non mi importa parlare di me, non soffro più per il fatto che la scrittura sia diventata un luogo dove mi metto da parte. Anzi, trasformarmi nel servitore di una storia non mia, che mi incarico di restituire, è più coinvolgente di qualsiasi racconto della mia vita, che in fondo è una vita mediamente fortunata e non ha nulla di particolarmente speciale.

Non so se questo tirar fuori gli scheletri dall’armadio – l’emigrazione dei bambini, le storie di confine, le donne invisibili – sia scrivere storie civili. Forse sì, ma non è importante definire un’attività come la scrittura, che è di per sé cangiante. So invece che anch’io – come chiunque faccia questo mestiere – dopo lo studio, gli incontri, le testimonianze, dovrò lasciar perdere tutto quello che conosco e abbandonarmi all’immaginazione. Studiare è la condizione ideale per poter usare al meglio la fantasia e non rimanerne schiacciati.

Ecco il paradosso che non smette di affascinarmi: dovrò inventare e mentire al fine di provare a raccontare meglio una verità; dovrò innestare qualcosa di immaginato in ciò che è accaduto per mettere meglio a fuoco la realtà stessa. Sì, perché scrivere è riconoscere l’insufficienza della realtà, che ha bisogno del supporto dell’immaginazione per dipanare più chiaramente il suo possibile senso.

Ecco perché non potrei mai scrivere una storia con protagonisti storici, perché mi mancherebbe la parte più pura e divertente di questo lavoro. Potrò al limite accogliere dei nomi, delle dinamiche, degli eventi reali, ma le donne e gli uomini che vivono nei miei romanzi saranno sempre frutto della mia fantasia, altrimenti sarebbero soltanto degli individui esistiti e non dei personaggi che voglio credere potenzialmente universali.

Dai miei personaggi desidero che rappresentino ciò che non è mai accaduto ma che sarebbe potuto accadere; quello che, pur non essendo mai avvenuto, si aggiunge alla storia con la stessa dignità di un fatto registrato. Forse è in questa immaginazione, nei tic, nelle parole e nei gesti dei personaggi che invento, che ritrovo ancora qualcosa di me. Può sembrare uno spazio risicato, e invece è vastissimo.

marco balzano quando tornerò einaudi

L’AUTORE E IL LIBRO – Marco Balzano (1978) è nato a Milano nel 1978. Con Sellerio ha pubblicato i romanzi Il figlio del figlio (Premio Corrado Alvaro Opera prima), Pronti a tutte le partenze (Premio Flaiano) e L’ultimo arrivato (Premio Campiello). Per Einaudi ha pubblicato Resto qui (2018 e 2020) che ha vinto, tra gli altri, il Premio letterario Elba, il Premio Bagutta, il Premio Mario Rigoni Stern ed è stato finalista al Premio Strega; in Francia ha conseguito il Prix Méditerranée, mentre in Germania ha scalato rapidamente la classifica dei libri più venduti. Per Einaudi ha inoltre pubblicato Le parole sono importanti (2019), e i suoi libri sono a oggi tradotti in molti Paesi.

Ora è tornato in libreria con Quando tornerò (Einaudi), una storia dedicata a chi parte e a chi resta. A una madre che va a prendersi cura degli altri, ai suoi figli che rimangono a casa ad aspettarla covando ambizioni, rabbie, attese. E un’incontenibile voglia di andarsene lontano.

Daniela ha infatti un marito sfaccendato, due figli adolescenti e un lavoro sempre più precario. Una notte fugge di casa come una ladra, alla ricerca di qualcosa che possa raddrizzare l’esistenza delle persone che ama – e magari anche la sua. L’unica maniera è lasciare la Romania per raggiungere l’Italia, un posto pieno di promesse dove i sogni sembrano più vicini.

Si trasferisce così a Milano a fare di volta in volta la badante, la baby-sitter, l’infermiera. Dovrebbe restare via poco tempo, solo per racimolare un po’ di soldi, invece pian piano la sua vita si sdoppia e i ritorni si fanno sempre più rari. Quando le accade di rimettere piede nella sua vecchia casa di campagna, si rende conto che i figli sono ostili, il marito ancora più distante. Un giorno la raggiunge a Milano una telefonata, quella che nessuno vorrebbe mai ricevere: suo figlio Manuel ha avuto un incidente.

Tornata in Romania, Daniela siederà accanto al ragazzo addormentato trascorrendo ostinatamente i suoi giorni a raccontargli di quando erano lontani, nella speranza che lui si svegli. Con una domanda sempre in testa: una madre che è stata tanto tempo lontana può ancora dirsi madre?

A narrare questa storia sono Manuel, Daniela e Angelica, la figlia più grande. Tre voci per un’unica vicenda: quella di una famiglia esplosa, in cui ciascuno si rende conto che ricomporre il mosaico degli affetti, una volta che le tessere si sono sparpagliate, è la cosa più difficile.

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