“La letteratura di stampo civile, che è quella che interessa a me, trova terreno fertile in ciò che è stato dimenticato”. Marco Balzano, già vincitore del Premio Campiello 2015, racconta a ilLibraio.it il suo ultimo romanzo, “Resto qui”, tra i protagonisti al Premio Strega 2018: “Scrivere può ridare una dimensione più umana alla storia, che invece spesso è asettica, a volte brutale, quasi sempre disumana” – L’intervista

Resto qui (Einaudi), l’ultimo romanzo del milanese Marco Balzano, è prima di tutto un libro politico. Balzano racconta la storia quasi dimenticata del paese di Curon, in Alto Adige, annesso all’Italia dopo la Prima guerra mondiale e poi cancellato da una diga progettata durante il ventennio fascista ma ultimata dopo la fine del conflitto.

Quella raccontata da Balzano è una vicenda di identità violate, dai fascisti prima, che obbligano la popolazione a parlare in una lingua che non riconosce e scelgono italiani per lavori che improvvisamente gli abitanti della valle non sono più buoni a eseguire, e dal cemento e dall’acqua poi. È anche una storia di resistenza, che viene sempre sviluppata dall’autore su diversi livelli.

Trina, la protagonista, ha studiato per diventare maestra ma non può più farlo e dunque decide di insegnare nelle scuole clandestine (un’altra pagina storica quasi ignorata). La sua è una resistenza attiva, che comporta un concreto rischio di arresto, così come attiva è la scelta, di Trina e del marito Erich, di scappare sui monti per sfuggire alla leva obbligatoria. Ma la resistenza di Trina ed Erich assume anche caratteri diversi, trasformandosi in quella che si potrebbe definire resilienza: nell’attesa della figlia fuggita in Germania con gli zii, nell’opposizione, strenua ma inutile, alla costruzione della diga che seppellirà il paese.

Il successo di Resto qui (apprezzato dai lettori fin dall’uscita e attualmente tra i dodici libri selezionati per il Premio Strega 2018) è forse indice del bisogno di confrontarsi con racconti problematizzanti, in cui il lettore è chiamato a mettersi in gioco in prima persona.
Abbiamo intervistato l’autore in occasione del Salone Internazionale del Libro di Torino.

 Resto qui romanzo di Marco Balzano

La nostra letteratura è ricca di romanzi ambientati durante il fascismo e durante la Seconda guerra mondiale. Tuttavia le vicende del Sud Tirolo, conteso tra italiani e tedeschi, sono un argomento poco trattato e a cui ancora oggi ci si approccia con difficoltà. Da questo punto di vista Resto qui è un romanzo decisamente “politico”. Balzano, come mai ha deciso di affrontare questo argomento da un punto di vista romanzesco?
“La letteratura di stampo civile, che è quella che interessa a me, si nutre e trova terreno fertile in ciò che è stato dimenticato, che sta nel silenzio, che – metaforicamente – è sommerso. È un serbatoio dell’immaginario da non sottovalutare. La letteratura ha, inoltre, la forza delle storie, che, tramite la narrazione parziale e soggettiva di singoli individui, può includere tutti quei personaggi che nella Storia con la S maiuscola non hanno avuto voce. La letteratura può dunque ridare una dimensione più umana alla storia, che invece spesso è asettica, a volte brutale, quasi sempre disumana”.

Come mai di queste vicende storiche si parla ancora poco?
Perché se in Italia si fosse parlato realmente di che cosa è stato il fascismo – e di che cos’è ancora –, questo non avrebbe trovato ogni volta terreno fertile sotto nuove spoglie, sotto nuove divise, sotto nuovi slogan. Già dal 1949 era di nuovo in Parlamento, appena ritoccato e con una nuova denominazione, e continua a trovare affiliazioni ancora oggi. Non si parla di tutto questo perché l’Italia è un paese che non fa i conti con la sua memoria storica, dove si preferisce nascondere la polvere sotto al tappeto invece di prendere coscienza e misura di quello che è stato per poter poi scrivere pagine veramente nuove.

I personaggi del suo romanzo più che vivere la politica la subiscono: le loro azioni politiche sono sempre in risposta a qualcosa di esterno. Lei nel raccontare i suoi personaggi evita però qualsiasi giudizio, mostrando invece le vaste zone di grigio in cui si muovono.
“L’esercizio del giudizio non è una prerogativa necessaria per uno scrittore: il lavoro dello scrittore ha molto poco a che fare con il politicamente corretto, o con le risposte. Non giudicare, secondo me, vuol dire avere realmente rispetto del ruolo del lettore, che in ogni opera d’arte deve poter avere uno spazio d’azione. Il lettore non è una figura passiva – come invece è spesso il telespettatore –, è una figura attiva che, con i suoi strumenti, la sua sensibilità e la sua ideologia, deve comporre un mosaico con le tessere che si trova davanti. A me piacerebbe che dai miei libri uscisse un lettore con più domande, non con più risposte. Un lettore in grado di elaborare da solo i propri giudizi (e per ‘giudizi’ intendo un’opinione, una visione delle cose) nel tempo successivo alla lettura: più si interroga, più il libro ha avuto successo. Questo è l’unico metro del successo: la durata della riflessione del lettore”.

Il mondo di Resto qui è un mondo arcaico, regolato da rigide distinzioni di genere e di classe che spesso ingabbiano i personaggi. Come nel caso di Trina, la protagonista, che ha la cultura per esporsi ma non può farlo in quanto donna (infatti le sue lettere di protesta contro la costruzione della diga vengono firmate dal marito Erich). Oppure come Erich stesso, che a sua volta vorrebbe battersi per un ideale, ma non viene ascoltato a causa della sua posizione sociale. In che modo la società esterna si insinua nella vicenda personale dei suoi personaggi, sin dall’inizio della storia e fino alla fine?
“Mi sarebbe piaciuto intitolare questo libro proprio Fino alla fine, perché dal momento in cui la storia irrompe nella sua vita, Trina, nonostante la sofferenza, continua a portare avanti le proprie idee. Nel racconto, come del resto nella realtà, la storia travolge una comunità con una vita non solo arcaica, ma ciclica, che segue le stagioni e va avanti secondo i ritmi della natura. Quando la storia irrompe, irrompe per sempre e in maniera definitiva, portando con sé un carico di brutalità ed estremizzando i limiti di quel tipo di società. Quindi, quando gli uomini partono per il fronte, le donne più che guadagnare una nuova posizione sociale, si trovano in realtà a dover colmare quel vuoto con la propria fatica.
Trina è una delle poche ad aver avuto la possibilità di studiare, e mi piaceva l’idea di creare un personaggio che concepisse il proprio sapere non solo come uno strumento per approfondire la sua condizione esistenziale e guardarla in modo più articolato rispetto agli altri contadini, ma anche che avesse chiaro sin da subito che ‘chi sa’ ha delle responsabilità in più. E proprio perché il sapere non è solo nozione ma approfondimento dell’esistenza, lei nella terza parte del romanzo si fa da parte, e il protagonista della lotta per fermare la diga diventa Erich. Trina è la sua ghost writer, gli dà le parole. Se il ‘sapere’ fosse un’immagine, per me sarebbe un ponte, perché implica sempre che le parole devono arrivare a un altro. Non c’è niente di più nichilistico della parola che ti rimbalza addosso”.

È sempre interessante quando uno scrittore o una scrittrice si cala nei panni di un protagonista e narratore del sesso opposto. Ci può parlare del suo rapporto con la protagonista Trina?
“È molto difficile spiegare come questa cosa sia avvenuta dal punto di vista tecnico. Da diverso tempo volevo scrivere un romanzo in prima persona con una donna protagonista, perché ero certo che il mio orizzonte sarebbe cambiato, perché la visceralità, la maternità in senso ampio, l’ancestralità dello sguardo di una donna e, aggiungerei, di una madre, è qualcosa che forse sostanzialmente invidio, perché non potrà mai essermi concesso. Mi sembra una cosa che capita a tutti, in generale: quando vai a scuola ti piacciono gli amici che ascoltano la tua stessa musica e leggono i tuoi stessi libri, poi una volta cresciuti ci si interessa di più all’altro da sé”.

Nel romanzo sono raccontati dei complessi rapporti genitore-figlio, che si sviluppano in modi molto diversi anche in relazione al genere dei personaggi. Me ne può parlare?
“Nel romanzo i maschi sono ‘maschi’ soprattutto in quanto uomini di un altro tempo, per cui le idee vengono prima dei sentimenti. Questo è un aspetto che mi interessava molto descrivere perché oggi ormai siamo tutti degli uomini ‘sentimentali’: oggi è inimmaginabile cacciare di casa un figlio perché ha idee politiche diverse da quelle del padre, ed è altrettanto irrealistico che una madre preferisca, come fa Trina, il marito ai figli. Insomma, mi interessava sottolineare come quei maschi fossero degli individui per certi versi più monolitici e come Trina, benché sia una che lotta, intenda invece le proprie radici in primo luogo come radici dell’anima, di se stessa, e solo in un secondo momento come radici fisiche. Tuttavia anche il padre di Trina, Pa’ (Ma’ e Pa’ sono i nomi dei genitori di Tom Joad di Furore di Steinbeck, cioè i genitori di un figlio fuggitivo), si occupa di lei quando i fascisti la arrestano, le dà manforte quando vuole fare la maestra clandestina. Le donne non sono avulse dalla situazione politica, la maggior parte forse, in quel contesto, lo saranno state, ma non posso costruire un personaggio che non sollevi la realtà: la realtà in sé e per sé è orrenda da raccontare. Il realismo è l’esatto contrario dell’appiattimento sulla realtà”.

Un altro elemento importante è la disgregazione che i suoi personaggi si trovano ad affrontare, disgregazione che ha una duplice natura, identitaria e affettiva. Questi due lati sono in qualche modo connessi?
“Vanno di pari passo. Resto qui è la storia di una progressiva disgregazione che arriva fino alla sommersione, fino alla nullificazione. La storia con la S maiuscola è crudele e violenta e, quando irrompe, distrugge una comunità coesa di pastori, che non ha nulla – mutatis mutandis – di diverso da una comunità come quella di pescatori dei Malavoglia. La storia divide non solo la comunità creando due identità contrapposte e ‘l’una contro l’altra armate’, ma spezza anche delle affettività, cioè i legami tra padri e figli, tra fratelli e fratelli. Ed è in ciò che sta la dolorosità della vicenda. Quello che mi interessava di più indagare era la formulazione degli affetti: in un romanzo politico bastano le soggettività degli individui, ciascuno portatore della propria idea e del proprio mondo, per creare frizioni”.

Per quanto riguarda invece la lingua, lo stile che ha scelto è molto piano, essenziale, scarno: si adegua alla storia che viene raccontata. È stata una scelta ponderata o più istintiva?
“Una storia è sempre lingua, voce. Finché non ho una soluzione linguistica forte e convincente non scrivo. Le ultime due storie che ho raccontato, ma forse anche le altre, affrontavano tematiche che comportavano un grande rischio di cadere nella retorica dei buoni sentimenti. Per questo motivo era necessario trovare una lingua scarna ed essenziale, che tenesse lontano questo spettro e quindi che fosse, almeno nelle mie intenzioni, molto sorvegliata. Poi, ovviamente, è la lingua a creare il personaggio, quindi Trina non è una figura che cede al dolore, ma si sa trattenere e di certe cose sceglie di non parlare. È stata questa lingua così sorvegliata a creare, quasi consequenzialmente, il personaggio”.

Come mai è stato scelto di inserire la mappa dei luoghi di Resto qui alla fine del romanzo e non all’inizio?
“Penso che all’inizio di un testo non ci debba mai essere niente, perché tutto distrae. Ad esempio, io non metto mai più di un esergo: quando ce ne sono due o tre, quella suggestione che si voleva dare a mio giudizio si indebolisce. Il lettore è sulla soglia di partenza, gli devo chiedere del tempo, di credere a quello che racconto: non lo posso distrarre troppo, devo lasciargli la concentrazione. Da questo punto di vista la mappa alla fine mi sembrava bella perché si collegava a una copertina che, per chi non conosce il luogo, sembra quasi un fotomontaggio. Mi piaceva l’idea di ricostruire quel mondo in maniera essenziale: l’ho proposta io, l’ho ricalcata da una piccola mappa di quei libriccini turistici che trovi nelle edicole, poi loro [i grafici di Einaudi, N.d.A.] l’hanno fatta meglio”.

Un’ultima domanda: il suo romanzo è tra i semifinalisti allo Strega, che cosa si aspetta?
“Spero che al centro del premio ci siano le storie, e che sia un’occasione per dare ai libri la massima attenzione”.

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