“Nei non detti ci sono le grandi verità delle famiglie, che poi possono diventare nevrosi, traumi, e apparire sul corpo dei discendenti, come succede con gli svenimenti del protagonista”. Mario Desiati, vincitore del Premio Strega nel 2022, torna in libreria con “Malbianco”, e si racconta a tutto campo: “I miei autori e poeti preferiti non hanno mai lucidato medaglie e sono morti senza riconoscimenti. Credo il tempo sia l’unico orizzonte critico con cui gli scrittori sognano di confrontarsi”. Tra i temi affrontati nell’intervista, la crescente aggressività sui social: “Una parte ottimista di me spera sempre che l’aggressività resti distante dalla vita reale, ma la storia, ahimè, ci insegna che quando la parola è violenta prima o dopo muta in azione violenta…”

“Cosa si prova a chiamarsi come un fantasma?”.

Il protagonista di Malbianco (Einaudi), il “più che quarantenne” Marco Petrovici, lascia Berlino per tornare in Puglia, a occuparsi di Use e Tonia, i suoi genitori.

Con l’ex compagna, Luisa Montieri, una scultrice italo-svizzera, l’amore è finito. È rimasta l’amicizia, ma in Germania non gli è rimasto molto altro.

Nella sua terra d’origine torna carico di sensi di colpa (“Nonostante diversi anni di psicoterapia mi ritenevo un fallito totale, un buono a nulla, un fuggitivo, un vile. Non avevo mai smesso di duellare con la ‘colpa’ di non essere il figlio che i miei genitori speravano, e non c’era comunicazione tra noi in cui non mi chiedessero quando sarei tornato a casa”) ma, soprattutto, in cerca della causa dei suoi improvvisi svenimenti: “In anni di terapia ho imparato che la famiglia è la culla del trauma originario. Ci sono gli abbandoni e gli abusi, certo, ma esistono anche altre avversità più sottili che cambiano l’esistenza di un essere umano, per esempio quando un bambino scopre all’improvviso di vivere in un mondo ostile. Nel momento in cui i terapeuti mi portano davanti a questa soglia, sento sempre di non poter andare oltre: devo proteggere i miei genitori dal loro giudizio”.

Un’inquietudine, quella di Marco, che ricorda quella di altri personaggi dei precedenti romanzi di Mario Desiati.

Malbianco Mario Desiati

Sono passati due anni e mezzo dalla vittoria al premio Strega con Spatriati: oggi si sente un po’ meno “spatriato”? Anche lei, come Marco, è tornato a casa, nella sua Puglia? Com’è stato questo periodo della sua vita?
“Abbastanza raccolto, anzi rintanato come dicono i miei amici con una punta di incomprensione. Ho studiato e scritto il libro e lavorato, e mi sono occupato di cose personali”.

Nell’agosto 2023, tra l’altro, ha perso una sua cara amica, Michela Murgia.
“Ci restano i suoi libri per fortuna, lo scorso autunno ho riletto i suoi romanzi, ci sono molte cose che arricchiranno il futuro. Come tutti i grandi scrittori che se ne vanno, il loro sguardo resta e si allarga col tempo dei loro libri”.

Dopo la vittoria, a 45 anni, del premio letterario italiano più importante, l’approccio alla scrittura cambia inevitabilmente? Si rischia di smarrire la motivazione, come i campioni dello sport dopo la vittoria più importante della loro carriera?
“Non credo esistano scrittori che scrivono per vincere qualcosa. E poi non credo esistano traguardi da raggiungere o specchi dove riflettersi. I miei scrittori e poeti preferiti non hanno mai lucidato medaglie e sono morti senza riconoscimenti. Come dicevo prima per Murgia, credo il tempo sia l’unico orizzonte critico con cui gli scrittori sognano di confrontarsi. Cesare Garboli in Gioco Segreto parlava proprio del critico chiamato Tempo”.

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“Non possiamo scegliere la nostra famiglia, il cognome, le nostre origini, ma possiamo riappropriarcene”. Malbianco è stata l’occasione per riflettere – ormai adulto – sul rapporto con la sua famiglia? In anni in cui, tra l’altro, molte scrittrici e scrittori italiani stanno facendo i conti con la propria. Nelle lunghe note finale scrive che “questo libro, come tanti libri che si scrivono, è anche un modo di stare vicino a persone che non ci sono più, oppure sono lontane, così lontane da sembrare irraggiungibili”.
“La scrittura, essendo un atto solitario e un atto di immaginazione, può permetterci, o darci l’illusione, di entrare in contatto con un’altra dimensione. Trascrivere un ricordo o la lettera a qualcuno che non c’è più può consolare, ma c’è la consolazione indicibile che quelle parole arrivino davvero dove desideri. Ho letto in un libro di Evelina Santangelo, Il sentimento del mare, che alcune popolazioni aborigene della costa nord orientale dell’Australia considerano il mare un paesaggio spirituale abitato non solo dagli spiriti dei morti, ma anche da quelli che devono nascere. E ho pensato che in realtà si scrive per i vivi, ma una parte dell’immaginazione è collegata a quel mare pieno di spiriti”.

Il protagonista del suo nuovo romanzo – che in parte si discosta dalle sue ultime opere – si interroga sull’origine del suo strano cognome, e si mette in cerca della cura al “malbianco” che opprime la sua misteriosa famiglia, tra segreti e silenzi (“La storia di zio Pepin che suona e canta nella neve è lo spettro che ancora oggi, quando viene evocato dalle mie domande, provoca il fastidio di tutti i Petrovici…”). In questa ricerca, Marco Petrovici non è solo: a supportarlo ci sono una zia, la psicoterapia, la storiografia, ma anche i ricordi d’infanzia e un diario ritrovato non per caso… Cos’ha ispirato la trama?
“Una delle scintille è stato il passaggio sugli spiriti in Favole di Leonardo da Vinci. Lo scoprii grazie a Enzo Siciliano. Lui disse che in quel passaggio c’era un tesoro. Lo ha scritto nella sua storia della letteratura. Ci sono anche altre cose, ma è morto troppo presto e non ho potuto chiedere se secondo lui gli spiriti che salvano le foglie del piccolo salice in mezzo agli alberi più grossi, fossero fuori o dentro il corpo degli esseri viventi. Volevo raccontare questo, quello che non si riesce a vedere o sentire, ma si percepisce che esiste. Per esempio, nei non detti ci sono le grandi verità delle famiglie, che poi possono diventare nevrosi, traumi, e apparire sul corpo dei discendenti, come succede con gli svenimenti del protagonista. La trama l’ho costruita come una indagine, credo che sia anche abbastanza semplice, è l’indagine genealogica che di solito molte persone iniziano a fare per conoscersi un po’ meglio. Raccogliere documenti, testimonianze, foto, e visitare i posti dove sono passati i nostri antenati. Oggi esistono tantissimi siti che assicurano di trovarti atti di nascita, di farti mappe e genogrammi. C’è una grande richiesta, e le ragioni sono disparate. A volte riesci a guardare al futuro solo quando hai dissolto un po’ di nebbia del tuo passato”.

“Chi mi conosce mi dice spesso che dimostro meno anni di quelli che ho: non per una questione di benessere, aggiungo io, ma perché do l’impressione di non essermi ancora del tutto sviluppato, come se i tratti adolescenziali della mia coscienza si fossero proiettati sul mio aspetto”: anche il protagonista di Malbianco, come altri personaggi maschili dei suoi libri precedenti, ha dei tratti in comune con lei. A Berlino, Marco, “buoni studi umanistici e una passione per la poesia”, si occupa di contenuti (“spesso copiati da altri contenuti online”) per “un’agenzia americana che li rivendeva a siti, blogger e influencer vari”, ma sente il desiderio di scrivere un libro, prima o poi. In cosa, invece, Marco non le somiglia per niente?
“Difficile smentire che ci siano così tanti punti in contatto, poi mi sono pure dimenticato di cambiargli l’anno di nascita, che è uguale al mio. Ovviamente Marco Petrovici ha una pazienza e un amore, un coraggio nell’andare fino in fondo che solo un personaggio romanzesco può avere”.

Anche questa volta, nella trama di un suo libro hanno un ruolo importante la Germania e la Puglia. In questo caso c’è però un elemento naturale insolito, il bosco, dove i genitori del protagonosta, che hanno più di di ottant’anni, vanno a vivere dopo la pandemia, “temendo l’aria di Taranto e l’asprezza dell’attuale vita in città”: nei suoi libri ha spesso raccontato le campagne murgesi, com’è nata questa particolare ambientazione?
“Sono cresciuto davanti a un bosco disabitato. Ne ho avuto paura a volte e altre volte ero felice di starci. Era un bosco dove c’erano gli asini selvatici e si facevano accarezzare anche da un ragazzino pavido come me. Però non ero felice di quella campagna, c’è sempre stato qualcosa che non mi tornava, un sospetto che mi teneva distante, la solitudine dei pomeriggi torridi d’estate, i bambini che parlavano alle pietre e certi animali misteriosi che comparivano la notte, solo la notte, che erano grandi come le mie mani di bambino. Poi col tempo ho scoperto il loro nome, erano le scutigere, piccole scoloprende che crescono nell’umido dei pozzi. E ogni volta che ne vedo qualcuna in giro per il mondo penso che qualche spettro di Martina sia venuto a trovarmi”.

Cosa significa scrivere romanzi in un presente offuscato da crisi economiche e sociali, guerre che si protraggono e violenza anche virtuale, data l’aggressività che ormai da anni domina sui social?
“Leggere, ancor prima di scrivere, è un esercizio spirituale, diceva Goethe, e gli esercizi spirituali pur portandoci ‘in altri mondi’ aiutano a vivere con una postura migliore quello in cui siamo col corpo. Certamente è aumentata la richiesta di engagement e iterazione in ogni campo. Ma, al contempo, anche la rapidità con cui questa deve alimentarsi, e per essere efficaci e ottenerlo si semplifica e riduce all’osso l’esito di un ragionamento o di un’opera (sempre che questi elementi ci siano). Una parte ottimista di me spera sempre che l’aggressività resti distante dalla vita reale, ma la storia, ahimè, ci insegna che quando la parola è violenta prima o dopo muta in azione violenta”.

mario desiati candore

Cambiamo decisamente argomento. Com’è stato accompagnare nella scrittura della sua autobiografia l’ex portiere della sua Juventus e della Nazionale Gianluigi Buffon?
“È un lavoro che ho sempre fatto, resto legato al mondo editoriale dove sono cresciuto. Di solito questo tipo di esperienze non si rendono pubbliche, ma con Gigi Buffon si è creato un rapporto umano per cui è stato bello condividere una piccola parte della promozione per il suo lancio. Io sono un calciatore fallito, seguo il calcio, e da giovane ho trasferito certe pulsioni innominabili nello sport. Scriverne, anche se come medium di un campione, mi è servito per conoscermi meglio”.

Quali romanzi italiani l’hanno più colpita negli ultimi anni?
“Seguo con interesse le opere prime, a volte mi piace proprio vederle crescere e nascere, come Damé della italo giapponese Noemi Abe, che esce in questi giorni con Bompiani, o  Stelle cadenti di Laura Marzi, che uscirà a marzo con Mondadori. Però negli elenchi resta sempre fuori qualcuno che hai amato”.

Continua a collaborare con la casa editrice tedesca Nonsolo Verlag, specializzata in narrativa italiana?
“Sì, con Alessandra Ballesi di Nonsolo abbiamo pensato al titolo della collana ‘Non solo limoni’, alcuni percorsi originali nel panorama, giocando con la frase goethiana sull’Italia”.

“Di certi fantasmi ci si libera soltanto raccontandoli”: e lei, a che punto è?
“Stanno tutti qui, vorrei che mi volessero bene”.

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