Susanna Nichiarelli (che ha già diretto un’opera cult come “Nico, 1988”) torna nelle sale con un piccolo gioiello caleidoscopico e psichedelico, dedicato a Eleonor Marx, terzogenita prediletta di Karl – La recensione del film “Miss Marx”

Anarchia, anacronia, antiretorica. S’identifica pienamente con la sua protagonista, che va contro l’ordine (stabilito, della società e del potere, e del padre), si oppone allo scorrere del tempo (scontato e scandito, del passato e del presente, con un occhio visionario al futuro) e contesta il discorso (dominante, spesso banalizzante e falso), questo piccolo gioiello caleidoscopico e psichedelico di Susanna Nichiarelli.

Reduce dal successo di Nico, 1988 (premiato nel 2017 nella sezione Orizzonti), torna quest’anno a Venezia con un biopic d’emozione e d’invenzione (pur fondato su attenta base documentaria), in costume ma fuori dalla convenzione, conquistando ragione e sentimento. Nella sua compostezza rivoluzionaria, con la sua schiettezza dirompente, si tratta infatti di un pellicola imprevista e imprevedibile. Un regalo.

Il film è incentrato su Eleonor Marx, terzogenita prediletta di Karl, erede passionaria e novella Medusa, che, con il suo sguardo fisso frontale e diretto (a momenti significativamente in camera) sfida chi assiste alla Storia senza far nulla (spettatore in primis), e guarda in faccia con forza e determinazione la vita, le sue sofferenze ma, soprattutto, la morte, quella del padre (che inaugura la pellicola), dei più deboli (soprattutto sul lavoro), ma anche degli ideali/idoli sociali e famigliari, e delle passioni personali e politiche, scoprendo che l’oppressione del mondo e la lotta di classe tendono a rispecchiarsi e riprodursi nell’universo domestico, nei rapporti di genere (anche i più prossimi), e forse perfino nei conflitti e nelle contraddizioni che ci lavorano e lacerano dentro.

A vedere Miss Marx (quasi parola unica, onomatopea di un’energia caotica e vibrante, impersonata con aliena eleganza ed esplosiva compostezza dalla britannica Romola Garai) sdraiata con una maschera colorata sui capelli che le scolpisce una chioma verdastra, pare proprio il gorgoneion che tanto intriga e inquieta l’immaginario europeo con i suoi serpenti in capo, col suo portato mostroluoso, mortifero, spettrale che persiste nell’agitarsi e aggirarsi, forza destabilizzante e dionisiaca.

E del capitale simbolico perturbante e disvelante di Marx, in un incipit dark e necrologico sottilmente burtoniano e fiabesco, la figlia del barbuto pensatore si fa carico, con le tutte le contraddizioni – dialettiche, s’intende – che questa eredità ha per il suo (nostro) tempo, mettendoci pure una buona dose di Edipo.

I titoli di testa, quasi un ammiccamento retrò verso un cinema che non è più (in un film che evoca esplicitamente il pre-cinema spaventoso, fa uso sapiente e sperimentante di immagini d’archivio in bianco e nero, ed è ambientato negli anni in cui la “invenzione senza futuro” dei fratelli Lumière vede la luce), sono una fantasmagoria/tappezzeria/copertura sotto/oltre la quale pulsa, con una felice dissonanza cognitiva, un frenetico ritmo punk rock, che farà irruzione per tutta la pellicola (realizzazioni e riscritture dei gruppi ‘Gatto ciliegia contro il grande freddo’ e ‘Downtown Boys’) fino al ballo da sola, sfrenato e oppiaceo, di questa Adele H, in cui palese si fa la lotta fra cuore e cervello, interiorità e Internaziolale, Natale e rivoluzione. Ma a differenza dell’uso giocoso ed estetizzante di una Sofia Coppola in Marie Antonietta, per citare una giustapposizione impossibile di colonna sonora, qui le note non hanno (sol)tanto il piacere e il compiacimento della festa, ma il ritmo dirompente e stregato di una danza sabbatica, momento di rottura, consapevolezza e alienazione insieme, perdita e coscienza fatale di sé. Così i costumi di Massimo Cantini Parrini sono pura ricreazione, avvolgendo di verità e di senso un Ottocento contemporaneo e prossimo.

Ecco che l’amore tossico della paladina dei diritti negati per un commediografo di dubbia tempra morale, narciso, dissipatore e fedifrago, la sua incapacità di liberarsene a fronte di una pur viva lucidità intelletuale, potenza argomentativa e forza ribelle d’avanguardia, lascia tristi ma non stupisce, ché anche con un secolo abbondante di emancipazione, certe trappole dell’umano ancora ci riguardano.

Così il finale, per quanto iscritto nel destino, risulta inaspettato e tragico, ironico e scuro, vitale e disperato. Ma questa capacità di giocare coi registri e coi piani, del vero e del recitato, fra tradizione e tradimento, realismo e intuizione, per raccontare un personaggio che tradusse Casa di bambola e Madame Bovary, un po’ forse rivivendole, sembra la chiave vincente di Nicchiarelli per dare vita a un personaggio complesso e a un mondo (in)credibilmente vicino, attraverso quella danza che ancora il cinema, quando è fatto bene, è capace di allestire (dancing in the dark).

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