In occasione dei quattrocento anni dalla nascita di Molière, Leonardo Lidi mette in scena al Teatro Carignano di Torino l’intramontabile capolavoro del drammaturgo francese: “Il misantropo”. Nella riscrittura del regista, il testo diventa cosa viva, rivelandosi presente, penetrante, perfino veggente. Sembra così di assistere a uno spettacolo di domani, che ci parla intensamente del nostro buio

L’abisso vivo del Misantropo: Molière verso nuovi Lidi

Uno nessuno e centomila, uomo senza volto e senza qualità: un man-ichino in black-tie, dal corpo imponente (Riccardo Micheletti), moltiplicantesi in un gioco di specchi (realizzato con la complicità degli allievi della Scuola per Attori del Teatro Stabile di Torino), con viso occultato e mani oscure, è sul palco: nero su nero. Questa figura ci accoglie – silhouette senza nome, incredibilmente novecentesca ed emblematica – come maggiordomo, fantoccio e ospite equivoco di una festa dal doppio incubo, segno/ombra/minaccia di un conformismo quasi di ordine metafisico da cui il protagonista, misantropo per titolo, indole e destino, cerca di distinguersi, fra desiderio di purezza e deriva intransigente, temendo al contempo di ritrovarsi, nel riflesso impietoso del (ri)sentimento, debole e ipocrita come tutti gli altri.

All’esordio del nuovo millennio questo spettro anonimo (questa teoria di spettri) ci introduce a uno spazio crepuscolare, post-apocalittico, bunker manicomaniale, sala da sballo perfetta per l’esercizio di un’arte dei miraggi (duplice autoinganno: illusione amorosa e illusione morale, timore/voglia di con-fondersi e utopia del distinguersi), resa qui con una scenografia (firmata da Nicolas Bovery, responsabile di una vicina waste land nel recente Le sedie di Ionesco, versione di Valerio Binasco) che fotografa un territorio magrittiano dipinto a lutto, un terreno sterile di detriti kieferiani (che nessun diluvio pare capace di rendere davvero fecondi), quello che Alceste (qui un Christian La Rosa peripatetico e claudicante, prigioniero di un tutore alla gamba e delle sue contraddizioni) definisce nel testo di Molière, con efficacia imperitura e disperata, come un “gouffre”(baratro, voragine).

Su questo (s)fondo abissale, si ritaglia una piccola porticina, pertugio ribaltato di un umbratile Truman Show (l’ossessione per la sincerità può risultare, in fondo, una forma perversa di menzogna?) che il drammaturgo francese mette in scena nel 1666, e oggi si dimostra vivo e pertinente più che mai, in questa versione ascoltata, propiziata e riscritta felicemente da Leonardo Lidi (Piacenza, classe 1988) che, rinunciando a rime, versi alessandrini e maschere, dismessi pizzi e collari, rivelato l’umano oltre ogni carattere, appare più vera del vero, proprio perché iniettata di surrealtà e incastonata in un’unità di luogo e di tempo claustrofobica e astratta (una direzione antirealistica analoga a quella del bellissimo lavoro fatto di recente sullo Zoo di vetro da questo stessio regista), contemporaneissima, che paradossalmente rende più concreto, profondo e universale il deserto in cui vaga e di cui vaneggia il protagonista. Perché di un ambiente interiore si tratta, dato che il meglio e il peggio di noi alberga, lo intuì Maria Stuarda in versi indelebili, nei più deserti luoghi.

Lidi lavora sul testo, limando ed espungendo i riferimenti smarriti che nulla direbbero al pubblico odierno, e scavando nei personaggi: ribalta il genere di Filinte (Orietta Notari), vecchio amico e confidente del protagonista, qui donna, con una naturalezza rivelatrice e senza alcuno spirito di provocazione fluida; dona ad Arsinoé (Francesca Mazza) un monologo sul tempo che passa inesorabile che da posa moralistica e bigotta prende piega di saggezza e prospettiva di verità; così Célimene (Giuliana Vigogna), la vedova allegra e civettuola di cui è innamorato irrequieto e geloso Alceste, acquista uno spessore e un senso inatteso di apertura e d’indipendenza; e perfino il rivale Oronte (Alfonso De Vreese) trasforma i suoi versi goffi e mediocri in un suono di chitarra che accompagna, con azzeccati anacronismi (il Guarda che luna di Fred Buscaglione) il clima lunare del consesso e il carattere lunatico del protagonista.

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La capacità di questa riscrittura non sta però mai nel piegare il testo a un’idea o a un messaggio, nel vestirla banalmente di nuovo, ma nello sviluppare e dispiegare, in ogni piccola scelta e grazie a un cast capace di sostenere il ritmo dei dialoghi e la stratificazione dei personaggi, la profondità di una commedia che sonda la voragine e che, così ri-portata in scena, non ha nulla di stantio e di distante. Con la forza intrinseca ma non scontata dei classici, le capacità maieutiche di un regista sorprendente e un corpo attoriale in perfetta sintonia, il testo diventa cosa viva, rivelandosi presente, penetrante, perfino veggente. Sembra così di assistere a uno spettacolo di domani, che ci parla intensamente del nostro buio.

Il misantropo con la regia di Leonardo Lidi è in scena al Teatro Carignano di Torino fino al 22 maggio.

L’AUTORE: qui tutte le recensioni e gli articoli di Matteo Columbo per ilLibraio.it

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