Alla figura di Alan Turing sono stati dedicati film e romanzi, da “The Imitation Game” e “Codebreaker” al recente “Macchine come me” di Ian McEwan. È apparso in testi sulla crittografia e la storia dell’Enigma Machine, in saggi sull’intelligenza artificiale o sulla storia dei diritti LGBTQ+ in Inghilterra. In “Mormorio” Will Eaves sceglie di raccontare il disintegrarsi e ricomporsi di un Turing prostrato dalle infusioni ormonali e dai dubbi filosofici… – L’approfondimento

Alan Turing non ha bisogno di introduzioni. Consciamente o meno lo incontriamo ogni giorno, negli algoritmi di Google e nel logo di Apple. A lui sono stati dedicati film e romanzi, da The Imitation Game e Codebreaker al recente Macchine come me di Ian McEwan. È apparso in testi sulla crittografia e la storia dell’Enigma Machine, in saggi sull’intelligenza artificiale o sulla storia dei diritti LGBTQ+ in Inghilterra.

Per la quantità di materiale prodotto, trovare una prospettiva nuova per raccontare Turing, non è solo difficile, ma anche piuttosto rischioso. La documentazione oggi disponibile sulla sua vita e il suo pensiero è infatti talmente abbondante e dettagliata che il narratore che volesse cimentarsi potrebbe facilmente trovarsi esposto alla severa interrogazione del più minuzioso dei critici. È forse questa la ragione per cui tutti i romanzi recenti in cui abbia fatto capolino si son guardati bene dal raccontarlo mimeticamente, ma abbiano prediletto dimensione altre – ucroniche o oniriche.Lo ha fatto, con discreto successo, Ian McEwan raccontando un 1982 alternativo in cui appare brevemente un Turing interessato a comprendere l’intricato rapporto tra intelligenza artificiale, legalità e moralità. E lo ha fatto Will Eaves in Mormorio, uscito recentemente per Codice Edizioni nella raffinata e precisa traduzione di Fabio Viola, scegliendo invece di raccontare il disintegrarsi e ricomporsi di un Turing prostrato dalle infusioni ormonali e dai dubbi filosofici.

Mormorio di Will Eaves

Se il Turing di McEwan è centrato, stimato e rispettato e discute di raffinati dilemmi filosofici come la soluzione del problema delle classi P e NP, l’apprendimento artificiale delle emozioni o le contraddizioni tra sistemi chiusi e aperti, comportamenti legali e immorali, sorseggiando un bicchiere di vino, il Turing di Eaves invece precipita in un controllato delirio onirico, teso tra desiderio e incubo, interrogandosi sul “mormorio delle macchine”, l’amore e il desiderio.

Pur nella loro profonda differenza e nel loro differente destino  – l’omosessualità del Turing di McEwan non è che un piccolo contrattempo, presto risolto in una società tollerante –, in entrambi i romanzi si affronta lo stesso tema, ovvero il rapporto tra individualità e coscienza collettiva.

In Macchine come me il tramite di questa indagine sono degli umani artificiali, una nuova classe di Adami ed Eve, che sostengono di innamorarsi o si suicidano incapaci di comprendere le contraddizioni dell’esperienza umana basata su un sistema regolato da leggi e sulla loro costante violazione. Sono umanoidi che apprendono il desiderio e l’amore tramite una rete neurale artificiale, che vivono secondo una legge morale universale acquisita come dataset e non pre-esistente la loro “coscienza” e che per questo – lancia come provocazione lo stesso Turing – potrebbero un giorno influenzare la vita umana, trasformandosi da passivi apprendenti a guide morali.

Macchine come me di Ian McEwan

Tutt’altro approccio è quello scelto da Eaves in Mormorio. Qui si incontra Alec Pryor tra il ‘52 e il ‘54 (ovvero tra l’anno della condanna per omosessualità e l’anno del suicidio), nel pieno della terapia di castrazione ormonale, ostracizzato dalla società e dalla famiglia, tormentato dall’amore per Christopher, geniale compagno di studi mancato in giovane età di tubercolosi.

Già da subito, la scelta di non nominare esplicitamente Turing, ma di farlo vivere attraverso l’alias di Alec Pryor, e di usare l’escamotage del diario e delle lettere permette a Eaves di avvicinarsi quanto più possibile alla coscienza di Turing, riconoscendo allo stesso tempo, nel rifiuto dell’identificazione, l’impossibilità di comprenderla. Non si tratta solamente di una scelta estetica, ma anche della volontà di tematizzare una delle domande che si pone continuamente Pryor-Turing: “se le persone vengono replicate, e una delle caratteristiche di chiunque venga replicato è un rapporto unico con la propria coscienza, come fanno questi esseri replicati a essere tutti identici?”

Nel presentare Turing sotto forma di non-Turing Eaves porta la riflessione anche nel campo letterario: cosa distingue una presunta biografia oggettiva da un romanzo biografico? Su cosa si fonda il patto narrativo? Quanto più si tenti di avvicinarsi all’oggetto della propria narrazione, tanto più evidente sarà l’impossibilità di non potervi aderire. Il Turing di un romanzo non potrà mai essere Turing. Come afferma Alec, “non è sapere ciò che pensa o sente un’altra persona a renderci chi siamo. È il rispetto che mostriamo verso ciò che non sappiamo.”

Sul rapporto tra coscienza individuale e collettiva e il paradosso di una coscienza a se stessa propriamente inaccessibile si imperniano tutte le altre domande: se ogni macchina è allo stesso tempo replica e unicum, se è progettata secondo delle regole ma esposta a interferenze che possono modificarne il comportamento, come possiamo avere la certezza che non stia “pensando”? E soprattutto, se un uomo ha dei desideri socialmente inaccettabili, come si può avere la certezza che in seguito a una cura chimica egli possa veramente aver soppresso tali desideri e non finga semplicemente di avervi rinunciato?non si possono cambiare le persone, né sdoppiarle, perché non ci è dato sapere che sono cambiate. Solo loro lo sanno.” E forse nemmeno loro.

Nella sezione centrale e più corposa del romanzo ecco infatti fare capolino i sogni e le allucinazioni di Pryor-Turing, interpretati in parte attraverso il colloquio con lo psicanalista junghiano Stallbrook e in parte attraverso le lettere all’ex collega e quasi moglie June (basata su Joan Clarke). Tornano qui i riferimenti a Christopher, amato e perduto, alla strega di Biancaneve (non solo in riferimento alla mela avvelenata con cui si suicidò, ma anche al rapporto con la madre), alla natura che resiste l’invasione, all’amore che resiste i mutamenti del corpo, alle Metamorfosi di Ovidio, alle forme uniche e separate, come nel rapporto degli uccelli che volano con la loro ombra o nella natura al tempo stesso umana e non umana di Pinocchio, alla disfatta dell’Io che si ritrae dal corpo, alla futura società dell’iperconnessione.

Nel comporre un romanzo così articolato, Eaves fa tre cose: la prima è pagare omaggio a una delle figure più importanti del ventesimo secolo, mettendone in luce gli aspetti più umani e sofferenti, raccontando allo stesso tempo la complessa relazione tra vita e scienza come una relazione tra corpo e ombra, unica eppure distinta. La seconda è dimostrare praticamente come le teorie sulla coscienza di Turing possano applicarsi anche alla narrativa e alla relazione tra personaggi intra ed extra-diegetici. Non sarebbe del tutto folle azzardare che i protagonisti della storia, usciti dalla penna di Eaves e approdati tra le mani di numerosi e diversi lettori, possano “pensare”, come macchine che in relazione a diversi utenti e circostanze possono comportarsi diversamente.

Infine, tessendo nel romanzo una serie di crittogrammi da decodificare (Alec-Alan, sogni-interpretazioni), in un certo senso trasforma noi lettori in un’infinita serie di macchine Enigma il cui scopo è interpretare un messaggio segreto.

McEwan e Eaves adottano prospettive diverse per approdare alla stessa conclusione: per ora la coscienza collettiva non è che argomento di speculazione, un semplice paradosso filosofico. Che i due romanzi siano usciti a distanza di pochi mesi testimonia forse l’urgenza di tornare a parlare filosoficamente del rapporto tra coscienze individuali, algoritmi e intelligenza artificiale.

C’è un passaggio in Macchine come me in cui Charlie incontra Turing negli uffici dell’Alan Turing Institute a King’s Cross*. È agitato, attendeva l’incontro da una vita. “Feci del mio meglio per sostenere il suo sguardo ma ero troppo inquieto e presto dovetti distoglierlo”.

Ecco, di fronte alle domande inquiete poste dai due romanzi, e in particolare da Mormorio, invece di distogliere lo sguardo intimoriti, dovremmo imparare a resistere la paura e iniziare a interrogarci sul nostro rapporto con le macchine, con gli altri e con noi stessi. Perché questo rapporto solo noi possiamo scegliere come impostarlo e romanzi come questi sono scritti per aiutarci a definirlo.

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