“Studio gli arcani da anni e mi hanno aiutato molto nella scrittura. Il motivo per cui li ho voluti coinvolgere esplicitamente nel racconto è quel senso del sacro, del magico, che avvertiamo nel confronto con quello che non possiamo controllare, con le crepe e gli sconvolgimenti. ‘Trema la notte’ non è un libro che muove per cause ed effetti, ma contiene una parte di indicibile. Non è semplice perdere tutto all’improvviso e mi sembrava che, più che ordinare gli eventi, fosse necessario scombinare il mazzo di carte…”. In occasione dell’uscita del suo nuovo romanzo, Nadia Terranova racconta a ilLibraio.it i temi più importanti del libro, la genesi dei personaggi e la sua idea di scrittura (“Quando scrivo mi interessa ricercare le parole giuste, più che le parole belle, e credo che farsi prendere dalla smania della forma sia controproducente perché l’artificio si avverte sempre”)- L’intervista

Trema la notte, i palazzi crollano, le famiglie scompaiono e i sopravvissuti scoprono di poter costruire, pagandola a caro prezzo, una nuova ipotesi di libertà.

È il nuovo romanzo di Nadia Terranova, Trema la notte, ancora una volta di casa Einaudi Stile Libero e racconta le vicende di Barbara, giovane siciliana che sogna la scrittura ed è riuscita a ritagliarsi “una stanza tutta per sé” abitata dalle grandi scrittrici della sua epoca, e di Nicola, un bambino che vive dall’altra parte dello stretto, vittima di una famiglia profondamente disfunzionale.

Quando il terremoto della notte del 28 dicembre 1908 distrugge Messina e Reggio Calabria, Barbara e Nicola cominciano un viaggio che non avevano chiesto ma che gli saprà insegnare una nuova autodeterminazione. Con una lingua musicale e ricercata che non scade nell’artificio e il racconto vibrante di due individualità smarrite, Nadia Terranova attinge a piene mani dalla storia della sua terra per narrarci il dolore e la rinascita, la maternità e l’infanzia rubata, la quotidiana resistenza che le donne, in ogni tempo, hanno saputo costruire.

Nadia Terranova, Trema la notte

Nadia Terranova, con Trema la notte immerge i suoi lettori in un tempo storico differente e in atmosfere piuttosto diverse da quelle a cui si era dedicata nei precedenti due romanzi.
“In realtà non vedo grandi parentele nemmeno tra i primi due romanzi, mi sembrano tutte storie con timbri diversi e atmosfere diverse. In Trema la notte c’è un tempo storico differente, che è solo uno tra i vari aspetti e forse è anche per questo che fatico a pensarlo come romanzo storico. Si tratta sicuramente di una storia ambientata in un tempo che non è quello contemporaneo e c’è stata una ricerca su fatti, costumi, e su tutto quello che poteva nutrire i miei personaggi in modo che agissero come persone di quell’epoca. Però la forza della vicenda, anche dal momento che è inventata, in qualche modo prescinde la dimensione storica. I due personaggi per me sono portatori di un senso del destino che non è solo legato all’evento, al terremoto, ma è universale. Non li vedo né come figure del passato, né ovviamente del presente, è come se vivessero dentro di me in un presente storicizzato”.

Parliamo di questi personaggi. Chi è Barbara?
“Barbara è un anelito alla libertà femminile. Bisognava prestare attenzione a non renderla una femminista contemporanea, perché questo l’avrebbe snaturata. Abbiamo esempi di femministe vissute a inizio Novecento, ma non è il suo caso: Barbara non è una militante, è una donna che ha dei desideri e che si rende conto che quei desideri sono radicali e inconciliabili con il mondo in cui vive. Per poter sopravvivere trova soluzioni, come creare una comunità di donne in cui crescere una figlia, o inventare il cognome di un marito inesistente, che sono femministe anche se lei non lo è. E poi Barbara vive in un piccolo paese sulla costa siciliana, provincia di quella che era una grande città, Messina, e non si può prescindere da questo contesto geografico. Per lei leggere Matilde Serao, selezionare i libri delle scrittrici nella biblioteca di famiglia, è già molto. Nella storia ci sono state tante Barbara, che magari non sarebbero state definite – o non si sarebbero definite – femministe, proprio come la maggior parte delle nostre nonne, ma che organizzavano la loro resistenza quotidiana”.

E Nicola?
“Nicola è il bambino che, in qualunque tempo, prova un incommensurabile sollievo a liberarsi dalla famiglia. In letteratura le famiglie dei bambini sono ingombranti: si eliminano i genitori per poter andare a vivere tutte le avventure del mondo. Nel caso di Nicola, questo sollievo è più esplicito perché viene da una famiglia particolare, con una madre vessatoria e manipolatoria. Nicola ribalta l’epica del povero orfano che ha perso i genitori: cosa succede se, quei genitori, il bambino non li voleva più?
Nicola ha un momento di smarrimento quando perde tutto, perché si ama quello che si ha, e se quello che si ha è poco si finisce per attaccarcisi lo stesso, dal momento che è l’unica forma di amore che si conosce. E Nicola non ha parenti, non ha amicizie, dunque per forza di cose deve convincersi che quella forma d’amore sia quella giusta, anche se vari segnali gli dicono che qualcosa non va”.

E poi ci sono i tarocchi, che danno nome ai capitoli ed entrano direttamente nel racconto.
“Studio gli arcani da anni e mi hanno aiutato molto nella scrittura. Il motivo per cui li ho voluti coinvolgere esplicitamente nel racconto è quel senso del sacro, del magico, che avvertiamo nel confronto con quello che non possiamo controllare, con le crepe e gli sconvolgimenti. Trema la notte non è un libro che muove per cause ed effetti, ma contiene una parte di indicibile. Non è semplice perdere tutto all’improvviso e mi sembrava che, più che ordinare gli eventi, fosse necessario scombinare il mazzo di carte. Poi, archetipicamente, gli arcani maggiori, e ancor più se si aggiungono anche i minori, contengono davvero la totalità delle cose, dunque le loro combinazioni aprono a viaggi sempre diversi. Per quanto riguarda i capitoli, ho scelto le carte che li introducono in base a riferimenti sotterranei della vicenda, e ho sentito il bisogno di esplicitarne il senso per chi non li conosce.

Nella sua scrittura c’è sempre un’adesione ai luoghi.
“Non potrei mai scrivere una storia senza partire da un luogo e se, magari, quel luogo non è così importante per lo svolgimento della vicenda da descriverlo, lo devo comunque immaginare. Non riesco a pensare a personaggi che si muovono in posti indefiniti, per poter scrivere devo sapere esattamente dove sono. Poi, a volte, il luogo è così importante per la scrittura da fuoriuscire: in questo specifico caso, siccome si tratta di un romanzo verosimile, in cui i personaggi sono inventati ma gli eventi sono storici, ho imparato dal modello manzoniano che le descrizioni non devono mai essere ornamentali, ma ricche di narrazione. Come l’addio ai monti, che sembra una descrizione ma, di fatto, è il resoconto dell’azione di un personaggio che se ne sta andando”.

Per lei i luoghi non sono le quinte di una scena. Andare, restare, tornare, i moti sono un altro elemento fondamentale della sua scrittura.
“È vero, mi piace raccontare gli attraversamenti delle città. Credo che l’incedere femminile nel mondo sia diverso da quello maschile. Il modo in cui le donne tagliano le strade delle città, attraversano i quartieri, ha uno sguardo tendenzialmente diverso, più onnicomprensivo. Le mie protagoniste camminano sempre e dialogano con quello che vedono, ci entrano in relazione. Per cui sì, i luoghi sono qualcosa da cui si passa e poi si cerca di sopravvivere a quel transito e si accoglie quello che cambia a ogni passo, a ogni passeggiata”.

Un altro aspetto centrale dei suoi romanzi è la famiglia, in questo caso incontriamo due famiglie disfunzionali.
“In questo libro ci sono due tipi di famiglie, divisi abbastanza nitidamente tra la prima e la seconda parte. Nella prima ci sono famiglie biologiche, tendenzialmente oppressive e patriarcali. Maria, la madre di Nicola, si inserisce in un contesto patriarcale: c’è un marito ricco che sceglie, quasi compra, la moglie, e lei in cambio riceve il diritto di diventare una sorta di dominatrice del figlio. Così come è patriarcale la famiglia di Barbara, con un padre vedovo che cresce la figlia da solo. Alla fine, però, sono delle famiglie abbastanza normali, in cui purtroppo i genitori esercitano un potere piuttosto che un dialogo e i figli non sanno come orientarsi per esprimere se stessi e per cercarlo, questo dialogo. E non è un caso che entrambi i personaggi cambino cognome, Nicola perché viene adottato e Barbara perché sceglie quello di un marito inesistente per essere libera. Così come non è un caso che formino delle famiglie non biologiche: quella di Nicola è una famiglia adottiva, quella di Barbara una famiglia elettiva, di donne che non devono più pagare l’obolo all’uomo che hanno sposato o che avrebbero dovuto sposare. Mi interessava indagare questo punto di partenza e questo punto di arrivo, ma non perché io abbia una sfiducia nella famiglia biologica: la mia famiglia di problemi ne ha avuti tanti, ma sicuramente non quelli che racconto in questo libro. Mi interessava esplorare diversi tipi di famiglia, monogenitoriale, elettiva, biologica, di adozione. Anche perché fare questo significa esplorare diversi tipi di maternità e la maternità non è mai venuta fuori così tanto come in questo romanzo, che in realtà è stato pensato prima che io restassi incinta”.

Un ultimo aspetto interessante da affrontare è la ricerca stilistica.
“Quando scrivo mi interessa ricercare le parole giuste, più che le parole belle, e credo che farsi prendere dalla smania della forma sia controproducente perché l’artificio si avverte sempre. Credo anche che storia e lingua si muovano insieme, perché nel momento in cui si sceglie di far parlare una donna del 1908 ci si deve porre un problema: questa donna non parla come noi e soprattutto non scrive come noi. Nel mio caso le possibilità erano tre: far parlare Barbara come una donna contemporanea, ma sarebbe stato grottesco, o farla parlare esattamente come una donna dei primi del Novecento, dunque inserire le eufoniche, i puntini di sospensione e farla scrivere come Matilde Serao, ma anche questa scelta sarebbe stata grottesca. La terza possibilità, che ho preferito, era quella di seguire la direzione bellonciana: Bellonci, quando scrive Rinascimento privato, riesce a far parlare Isabella D’Este rendendola fruibile ai suoi contemporanei, ma operando un recupero di alcune parole e di alcune espressioni che sono innegabilmente legate all’epoca di Isabella. E questo è quello che ho fatto anche io: identificare e isolare alcune parole e in generale una musicalità, in modo da avere un linguaggio che fosse il più naturale possibile sia per me sia per Barbara”.

Fotografia header: Nadia Terranova credit the creative brothers & Sara Sabatino

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