Più volte candidato al Premio Nobel per la letteratura, Ngũgĩ wa Thiong’o è un romanziere, poeta, drammaturgo, saggista, attivista politico, teorico post-coloniale kenyota. I suoi romanzi, classici della letteratura africana, raccontano la storia e la quotidianità del Kenya: la lotta per l’indipendenza dall’imperialismo inglese e i duri anni di dittatura che sono seguiti all’indipendenza. Il suo saggio “Decolonizzare la mente” è un testo centrale negli studi post-coloniali, dedicato all’importanza della lingua come fondamento delle identità culturali. E il romanzo “Il mago dei corvi” è un’epopea di tutto ciò che gli appartiene… – Su ilLibraio.it un approfondimento dedicato ai suoi libri

Incastonato tra la Somalia, l’Etiopia, il Sudan del Sud, l’Uganda, la Tanzania e l’Oceano Indiano, il Kenya è un’ex colonia britannica nota a molti occidentali: le spiagge sono di una sabbia immacolata e cinte da palmeti, l’entroterra offre safari straordinari, alla scoperta della savana, di elefanti e giraffe, delle riserve Masai, lasciando scorgere la vetta del Kilimangiaro non troppo distante dalla Rift Valley e dalla zona dei laghi.

Succulenta meta turistica, il Kenya è anche la terra di Ngũgĩ wa Thiong’o (1938), scrittore, accademico e teorico postcoloniale: le sue origini kenyote, il legame con il suo paese, le sue tradizioni e la sua cultura sono il cuore pulsante del romanziere, poeta e saggista africano, proposto più volte per il Premio Nobel per la letteratura. Il Kenya, nei sui libri e nella sua esperienza, è ben diverso da come appare agli occhi dei turisti occidentali. Altrettanto bello, ma più complesso.

Quando, nel 1938, nasce, Ngũgĩ wa Thiong’o viene battezzato cristianamente come James Thiong’o Ngugi, e cresce in un Kenya che è ancora colonia britannica e frequenta sia le scuole delle missioni sia quelle della popolazione Gikuyu, il più numeroso gruppo etnico del Kenya. Negli anni ’50 vive sulla propria pelle la rivolta dei Mau Mau (1952-1960), un lungo e sanguinoso conflitto che vede le popolazioni indigene ribellarsi, senza successo e con un altissimo costo di vite umane, alla dominazione britannica; suo fratello partecipa attivamente alla guerra e sua madre viene torturata dall’esercito inglese. Nonostante la sconfitta, quegli anni di lotta rappresentano una pietra miliare nella storia del paese, avendo posto le premesse che hanno reso possibile l’indipendenza, ottenuta pochi anni dopo, nel dicembre del 1963.

Ngugi Wa Thiong'o libri weep not child

La rivolta Mau Mau è anche il tema centrale del primo romanzo di Ngũgĩ wa Thiong’o, Weep Not, Child (1964), nell’edizione italiana Se ne andranno le nuvole devastatrici (JacaBook, traduzione di Marco Grampa). Il romanzo, scritto in inglese negli anni dell’Università, la Makamere University a Kempala, in Uganda, descrive gli effetti del conflitto Mau Mau su una famiglia kenyota che diventa allegoria di tutto il paese, attraverso una lente d’ingrandimento puntata sui due fratelli, Njoroge e Kamau, entrambi costretti a scegliere se costruirsi un futuro o lasciarsi coinvolgere nel movimento nazionalista che vuole liberare il paese dal dominio imperialista. Amori impossibili e famiglie lacerate riflettono la condizione di tutta una popolazione inevitabilmente travolta dal corso degli eventi, mentre il romanzo sembra dimostrare che, quando si tratta della propria terra, della propria cultura e della propria libertà, è impossibile chiamarsi fuori dallo scontro, impossibile rimanere a guardare in disparte e sperare di non doverne pagare le conseguenze.

L’anno successivo, Ngũgĩ wa Thiong’o vince una borsa di studio che gli permette di proseguire gli studi universitari in Inghilterra, dove frequenta l’Università di Leeds e comincia a lavorare a una tesi sulla letteratura caraibica e le opere di George Lamming, scrittore molto significativo nella sua formazione; ma il percorso, e la tesi, rimangono inconclusi, e Ngũgĩ wa Thiong’o si dedica alla scrittura.

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Nel 1965 esce il suo secondo romanzo, The River Between, che vede nuovamente al centro la rivolta Mau Mau, questa volta sullo sfondo di un tema più ampio: il libro, ambientato nella zona montuosa del Kenya, riflette sul modo in cui i colonizzatori impongono nuove tradizioni culturali e sociali sulle popolazioni indigene, causando fratture inconciliabili tra le tribù. Il romanzo, che ha per protagonista un giovane uomo di nome Waiyaki, esplora un tema che, col passare del tempo, sarà sempre più caro all’autore: l’identità culturale delle popolazioni africane. Oggi, The River Between è considerato un classico della letteratura kenyota e fa parte delle letture previste dal sistema scolastico.

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Scritto durante gli studi in Inghilterra, nel 1967 esce A Grain of Wheat, Un chicco di grano (JacaBook, traduzione di Marco Grampa) ambientato ancora una volta sullo sfondo della ribellione Mau Mau: il romanzo segue gli eventi che portano all’indipendenza del Kenya attraverso le vicende di rivoluzionari indipendentisti, colonizzatori inglesi, collaboratori degli inglesi, le loro spie e i traditori della causa kenyota, le cui vicende si intrecciano tragicamente spezzando amori e famiglie. Il libro segna una svolta nella produzione letteraria dell’autore, che passa dall’adottare punti di vista singoli a una focalizzazione multipla, con diverse linee narrative che si intrecciano, spostando l’attenzione dall’individuo alla collettività. Non solo, A Grain of Wheat segna anche un giro di boa significativo per l’uomo, oltre lo scrittore: risale a quel periodo infatti la scelta di rinunciare alla religione cristiana e al nome di battesimo James, in quanto aspetti di una cultura coloniale e non appartenenti al suo popolo; adotta allora il nome Ngũgĩ wa Thiong’o e comincia a scrivere in Gikuyu e Swahili.

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In quello stesso anno, a quasi trent’anni, Ngũgĩ wa Thiong’o diventa docente di letteratura inglese all’università di Nairobi, dove, insieme ad alcuni colleghi, partecipa alla stesura dell’intervento On the abolition of the English department, una protesta che mirava a liberare l’ambiente scolastico e universitario dal dominio culturale inglese per dare invece spazio allo studio delle culture tradizionali del territorio africano colonizzato, un tema che sarà sempre più rilevante nella produzione letteraria e saggistica dello scrittore.

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Durante quegli anni di insegnamento universitario, Ngũgĩ wa Thiong’o si dedica soprattutto alla scrittura di sceneggiature per il teatro, sviluppando una concezione della performance teatrale come partecipativa, quindi organizzando gli spettacoli in funzione del coinvolgimento del pubblico. È questo il caso della sceneggiatura Ngaahika Ndeenda (Mi sposerò quando lo voglio io), scritta a quattro mani con Ngũgĩ wa Mirii e andata in scena nel 1977, uno spettacolo fortemente politico e duramente polemico nei confronti della vita quotidiana nel Kenya ormai indipendente; la rappresentazione non viene vista di buon occhio dalle autorità, tanto da portare all’arresto di Ngũgĩ wa Thiong’o, che viene detenuto per un anno nel carcere di massima sicurezza di Kamiti.

Ngugi Wa Thiong'o libri devil on the cross

L’anno passato in carcere, tra il dicembre 1977 e il dicembre 1978, segna profondamente, com’è inevitabile, la vita dello scrittore, e anche la sua formazione intellettuale: questo periodo vede maturare diverse scelte a lungo meditate, rafforzando convinzioni e posizioni già sedimentate, come la decisione di rinunciare completamente all’inglese come lingua di scrittura e di espressione creativa; ed è proprio in carcere, usando della carta igienica come supporto, che Ngũgĩ wa Thiong’o scrive il primo romanzo moderno in lingua Gikuyu, pubblicato nel 1980, quando l’autore era stato scagionato da oltre un anno, e tradotto in inglese come Devil on The Cross. Il libro racconta la storia di una donna, Wariinga, arrivata a Nairobi dalla campagna e costretta, per sopravvivere, a sottoporsi a un sistema di sfruttamento disumano. Più entra a far parte del sistema malato su cui si basa l’economia cittadina, più Wariinga si accorge che le regole del gioco rientrano in una dinamica più ampia, globale, che l’occidente ha imposto al suo mondo per trarne il maggior profitto possibile. In una parola? Il capitalismo.

Dopo essere stato rilasciato, Ngũgĩ wa Thiong’o non si vede restituire la cattedra all’Università di Nairobi, né può insegnare in qualsiasi altra Università del paese; non per questo rinuncia alle proprie severe opinioni nei confronti del governo kenyota, all’epoca la dittatura Moi, e nemmeno si trattiene dal metterle per iscritto nelle sue opere, assicurandosi un posto fisso sul podio degli individui più sgraditi al governo, che, in cambio, non gli rende la vita facile: nel 1982, lo scrittore e la sua famiglia si trovano costretti a emigrare, dapprima in Inghilterra e, dalla fine degli anni ’80, negli Stati Uniti.

Ngugi Wa Thiong'o libri Decolonizzare la mente

Ai primi anni di esilio, nel 1986, risale la pubblicazione di una raccolta di saggi che tratta alcuni degli argomenti più cari allo scrittore, temi che hanno costituito il grosso del suo impegno accademico e intellettuale nell’intero arco della sua carriera: Decolonizzare la mente. La politica della lingua nella letteratura (Jaca Book, traduzione di Maria Teresa Carbone, 2015), un testo centrale anche all’interno degli studi post-coloniali. Il volume è una commistione di letteratura, storia e cultura dell’Africa come continente ed ex colonia, insieme ad aspetti personali della vita dell’autore, e raccoglie quattro saggi, La lingua della letteratura africana, La lingua del teatro africano, La lingua della narrativa africana e Alla ricerca della rilevanza; la trattazione si basa sulla convinzione che lingua e cultura siano due concetti inscindibili, strettamente legati e interdipendenti, uniti nella creazione delle identità, collettive e singole, su cui si basa il rapporto dell’uomo col mondo: “La lingua come cultura è la banca della memoria collettiva dell’esperienza di un popolo nella storia”. La colonizzazione, con tutte le imposizioni sia linguistiche sia culturali che ha comportato sul territorio africano, ha soffocato le tradizioni su cui si basava l’identità stessa delle genti africane, imponendo un dominio linguistico e culturale altro, una supremazia occidentale; il risultato di questo processo è una sorta di ‘alienazione coloniale’, le cui conseguenze vengono minuziosamente analizzate dall’autore, che affronta di petto le diverse tematiche correlate, compresa la difficile posizione in cui si trovano gli scrittori africani nel dover scegliere in che lingua esprimersi, consapevoli del fatto che da qualsiasi scelta linguistica derivano conseguenze tematiche e un’implicita selezione di pubblico. Sono temi che Ngũgĩ wa Thiong’o aveva già affrontato in precedenza, numerose volte, ma che trovano all’interno del volume una sistemazione programmatica, articolata ed esaustiva.

Di identità culturale e delle conseguenze che il colonialismo e la guerra possono avere sulle tradizioni di un popolo, parlano anche i due memoir Sogni in tempo di guerra (JacaBook, traduzione di Guendolina Carbonelli) e Nella casa dell’interprete (JacaBook, traduzione di Maria Teresa Carbone), che affrontano l’argomento da un punto di vista strettamente personale per l’autore; non di meno le opere saggistiche, come Globalectics: Theory and the Politics of Knowing, che viene tradotto in Italia per i tipi di Jacabook, Globalettica, in uscita a fine anno.

Ngugi wa Thiong'o libri Globalettica

Sono anche i temi di su cui si è concentrato l’attivismo politico dello scrittore kenyota, che da quando è in esilio ha girato tutto il mondo per tenere lezioni universitarie e conferenze sull’impatto che imperialismo e colonialismo hanno avuto sulle popolazioni conquistate, le loro culture e la loro identità; ha anche collaborato con il Comitato per la Liberazione dei Prigionieri Politici in Kenya negli anni trascorsi in Inghilterra. Quando, nel 1989, si è trasferito negli Stati Uniti, ha cominciato a insegnare Letterature comparate, dapprima all’università di Yale, poi per dieci anni alla New York University, tra il ’92 e il 2002, anno in cui, grazie alla fine della dittatura Moi, ha fatto ritorno con la moglie in Kenya. Ma il ritorno, tanto agognato, non è stato pacifico: Ngũgĩ wa Thiong’o e sua moglie vengono attaccati da quattro uomini armati e, salvando per un soffio le loro vite, tornano negli Stati Uniti, dove tutt’ora lo scrittore vive, in California, e insegna Letteratura inglese e Letterature comparate all’Università di Irvine.

Ngugi Wa Thiong'o libri Il mago dei corvi

Nel 2004 Ngũgĩ wa Thiong’o ha dato alle stampe quello che viene considerato il suo più grande capolavoro, Il Mago dei corvi, un romanzo mastodontico, di circa novecento pagine, in libreria per La Nave di Teseo nella traduzione di Andrea Silvestri. La storia si ambienta nella Repubblica Libera di Aburiria, una nazione fittizia costruita ad arte per rispecchiare tanto la situazione politica del Kenya quanto quella di diversi altri paesi liberati dalla colonizzazione, solo per cadere nelle mani di altri tiranni; luoghi, in sostanza, che tanto liberi non sono: in Aburiria si respira un clima di paura e sospetto costante, fomentato dai grotteschi interventi cui si sottopongono i rappresentanti del governo per tenere sotto controllo i loro cittadini, operazioni per ingigantire gli occhi e le orecchie, nel tentativo di vedere e sentire tutto. In questo sistema di repressione ai limiti del (realismo?) magico e dell’assurdo, il governo fa erigere l’edificio più alto del mondo, praticamente una Torre di Babele, che metta in contatto la terra e il cielo, come regalo di compleanno per il Presidente, un personaggio senza nome, riferito solo con il suo titolo istituzionale, che avrebbe così modo di comunicare direttamente con Dio. Ma il presidente, gonfio come un palloncino di elio, fluttua nella stanza del trono, e c’è un solo uomo in tutta l’Aburiria che possa curare la sua condizione: Kamiti, un giovane stregone dotato di poteri straordinari e famoso tra la popolazione come il mago dei corvi. Mentre i vari rappresentanti del governo ridicolizzano se stessi e le loro cariche nel tentativo di ottenere i favori del Presidente, il mago dei corvi si ritrova sulle spalle le aspettative di tutto il paese, le speranze di chi vede in lui l’unica possibilità di ribellione e libertà, ma anche le mire di chi intende usare il suo potere per un proprio tornaconto personale e rafforzare una repressione che ha già messo in ginocchio il popolo di Aburiria. In questo scenario avviene l’incontro tra il mago e Nywira, la bellissima ribelle del Movimento per la Voce del Popolo, una figura di guerriera quasi mitologica eppure tragicamente contemporanea nel suo battersi per la giustizia e per i diritti degli oppressi. Per tutti e due, incontrarsi è destino, quasi l’avverarsi di una profezia.

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A metà strada tra satira politica, echi biblici, distopia, mito, leggenda e magia, il romanzo è caratterizzato da una prosa che rispecchia la lingua originale del testo, la lingua Gikuyu: “i lettori farebbero bene a ricordare che si tratta di una traduzione da una lingua le cui tradizioni narrative sono principalmente orali e fortemente performative; la storia è fantastica e didattica, raccontata con audaci tocchi caricaturali”, ha scritto John Updike sul New Yorker. E ancora Jeff Turrentine, per il New York Times: “È difficile pensare a un altro romanzo recente che abbia radici così profonde nella tradizione orale; a livello del linguaggio e del ritmo ricorda una lunga storia raccontata intorno a un fuoco”.

Questa forte manifestazione di oralità della lingua madre, che permane nella traduzione, è un aspetto del romanzo che acquisisce un significato fondamentale se si pensa alle battaglie che Ngũgĩ wa Thiong’o ha combattuto in nome della lingua come colonna portante dell’identità culturale: lo stile stesso del libro è un alfiere della scacchiera, con l’intenzione di fare scacco matto alla supremazia linguistica, culturale, letteraria, non soltanto inglese, ma occidentale, di quello stesso occidente che, ormai da secoli, al continente africano ha tolto tutto e restituito niente. Per questo motivo quando Ngũgĩ wa Thiong’o racconta il Kenya sceglie di scriverne in Gikuyu, non soltanto per prendere una posizione, ma anche per restituire a una popolazione la sua lingua, le tradizioni, i miti, le leggende, la cultura e l’identità: quale modo migliore per farlo che raccontare una storia?

 

Nota: l’immagine in alto è del sito SAHO.

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