Nel suo debutto letterario, Laura Mancini, autrice romana, racconta una storia tutta femminile sullo sfondo di una città che pulsa e si trasforma nel tempo insieme ai suoi abitanti – L’approfondimento

1943 Roma, San Lorenzo – 1990 San Lorenzo, Verano

Questo l’arco di tempo in cui si snoda la vicenda raccontata da Laura Mancini nel suo esordio letterario, Niente per lei (e/o). Quasi mezzo secolo condensato tra i confini di Roma: ogni anno (e ogni capitolo) una piazza, una via, un quartiere di una città pulsante di umanità accolgono le emozioni frutto del vissuto complicato di Tulliè, la protagonista.

So cresciuta come un maschio io […] e se piove trovo riparo.

Tullia è una bambina dei sobborghi, cresciuta nell’indigenza di una famiglia condannata dalla malattia mentale della madre, Rosa, incapace di qualsiasi forma di amore e dalla morte prematura del padre, venditore ambulante di spazzole e prodotti per capelli.

Erede prematura e involontaria della sua valigetta di lavoro, Tullia finisce per le strade del quartiere nel tentativo di racimolare quanto necessario a sfamare famiglia e fratelli, con un solo monito: non essere come Rosa, potente nella sua bellezza misera, ma ammorbante.

La rottura è inevitabile: l’unico modo di salvarsi, per Tullia, è andare via: “Non avrei accontentato altri che me stessa, non avrei sminuito la dimensione del mio sogno”, è ciò che dice quando, giovanissima, si ritrova ragazza madre.

niente per lei mancini

Lasciare il nido domestico significa abbracciare Roma, madre non meno crudele di quella biologica. Piccoli affreschi di case popolari, vita di fabbrica, lotte operaie e rivendicazioni sindacali accompagnano il vagabondare inquieto di Tullia, sempre “schiena dritta e spalle larghe” “sull’uscio di un piccolo inferno senza regine né suddite” (1969 – Pietralata, lavanderie della Itor).

In questo susseguirsi di scorci urbani e interni decadenti, la presenza di Rosa resta ingombrante, invadente in ogni aspetto della vita della protagonista, come ricordo o spettro di una maledizione da cui fuggire, voce interiore che tormenta e di cui è impossibile liberarsi.

Rosa ci aveva servito un’infanzia rancida come una zuppa stracotta e poi lasciata ammuffire, non avrei ricompensato la noncuranza con la compassione.

La colpa è di Rosa, certo, ma anche di quella natura che “stabilisce chi sì e chi no; tutto quello che ha l’uomo deve sudarselo, compreso il diritto di sopravvivere”. La nota dominante di tutta la narrazione è un fatalismo popolare che, lungi dal rendere vittime, trasforma il sacrificio in una forza, sinonimo per eccellenza di orgogliosa dignità.

Una dignità che, in qualche modo imprevedibile e insperato, arriva a farsi strada e a imporsi. Quando Tullia comincia a trovare il proprio posto nel mondo con il lavoro da cuoca, Roma si illumina con lei.

Eravamo cresciute, la strada e io.

Tullia è Roma, la sua vita è la strada che la accoglie ogni giorno, da bambina venditrice ambulante a lavandaia a cuoca. Lo è anche quando, sotto i colpi di quella che sembra essere una condanna familiare, il rapporto con la figlia Marzia ormai adolescente cede all’incomunicabilità e all’incomprensione. Il momento della rottura è raccontato da quadri di violenza urbana:

Tutto, in quella città, era violenza. I cantieri, le case rotte, i ladri, il fiume grosso, le baracche, il contrabbando. Roma mi appariva nel suo volto più crudo. Una matrigna sempre identica, polverosa, accroccata capace solo di respingere i suoi figliocci lungo strade luride e affollate, ognuno verso un nascondiglio sicuro.

Niente per lei è la cronaca dell’arrancare di una donna in una società ostile che la respinge e mostra in ogni occasione il suo lato più spietato. Fino al necessario epilogo, in una parabola che dura più di quarant’anni, il rancore non smette mai di pulsare. Velato di rimpianto, più raramente di rimorso, col trascorrere del tempo anche della consapevolezza dell’inevitabilità della malattia: ma rimane lì, impregna le vie della città, impossibile da dimenticare.

[…] le figlie che lasciavano le madri in manicomio per diventare madri a loro volta. La stessa speranza di sopravvivenza che divideva invece di unire.

È una circolarità marchiata dal sangue del senso di una colpa crudele ma inevitabile, la ferita mai cicatrizzata del mors tua vita mea come imperativo che domina la narrazione e riscatta Tullia – così come lei arriva a giustificare senza perdono Rosa.

Nonostante l’unica forma ammissibile di ritorno sia quella della costrizione dei doveri filiali da adempiere, anche nel disagio crudo del manicomio in cui la madre si trova a finire i suoi giorni sopravvive un’ammirazione viscerale per lei e la sua forza, una sorta di orgoglio del sangue che rende tragica (nel senso greco del termine) il distacco obbligato del cordone ombelicale: “E invece ne era valsa la pena, per quella donna insopportabile e crudele che era sempre stata, e sempre sarebbe rimasta, dieci spanne avanti rispetto a ognuno di noi”.

E per questo, forse, la consapevolezza finale della figlia di non poter mai essere come la madre oscilla tra la rivendicazione fiera e una nota di malinconico rimpianto.

 

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