Tra Milano e la campagna, i personaggi di “Non per cattiveria” oscillano tra le bugie e le loro conseguenze, cercando di non cadere mai. Beatrice Benicchi, all’esordio, racconta su ilLibraio.it cos’è stato scrivere di un mondo grottesco che “mi diverte e che allo stesso tempo avrei voluto esistesse”
La prima volta che ho raccontato a qualcuno l’idea del libro, stavo raccogliendo le castagne. Ero con i miei genitori. Non abitando a casa loro da anni, ogni volta che torno cerchiamo di concentrare una serie di attività che ci ricordano i vecchi tempi, e anche se a volte quelle cose non le abbiamo mai fatte prima, ci sembra lo stesso di averne nostalgia.
Mentre infilzavo con il bastone i ricci e con la punta della scarpa li aprivo, ho affermato che avrei investito il mio tempo su questa storia: un’alleanza tra padre e figlia che scoprono di non avere più una casa.
Mio padre, poveretto, dev’essersi sentito subito coinvolto. Ma non parla di te, gli ho spiegato, è una storia di fantasia, non parla di niente che ci è successo.
Ora che ci penso però, più che inventarla, mi sembra di aver mentito sulla realtà fino a non riconoscerla; e, anche se non saprei dire che differenza ci sia tra un’invenzione e una menzogna, sento che una differenza c’è, e che ha a che fare con la vergogna di essere colti in fallo. Anche Non per cattiveria, in fondo, parla proprio di bugie, di quelle bugie bianche, cioè buone, che si rivelano sempre dannose, più delle altre, perché le loro conseguenze sono conseguenze affettive.
All’inizio non è stato facile trovare la disciplina per scrivere.
Avevo paura che non funzionasse, ovviamente, che è una paura banale e che dura per sempre, ma certi giorni ci si sente matti anche solo a pensare. Forse è per questo che pure i personaggi sono un po’ matti, perché così li capivo e riuscivo a immaginarmeli meglio.
Tutto comincia con una nonnetta ludopatica che disegna a carboncino i rettili e gli anfibi che tiene nelle sue teche, un padre che è il più grande collezionista di figurine e una bambina che viene colpita da un fulmine. Quasi tutti muoiono, ma lei no.
In questo libro c’è un mondo grottesco che mi diverte e che allo stesso tempo avrei voluto esistesse; c’è la ricerca di dio, che non è morto ma è in coma in un ospedale privato; e la giungla, che è esplosa sotto un cavalcavia.
L’indecisione e l’impulso rendono le persone del romanzo sempre sul punto di sbattere negli spigoli, sempre a un passo dal crollo, e sono così ridicoli, quando si rimettono in equilibrio, che oscillano e piangono e poi si addormentano per lo spavento.
Il libro stesso, in qualche modo, oscilla. Tra Milano e la campagna.
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Gli uliveti e Milano li ho scelti perché hanno una cosa in comune importante: sono posti in cui sono stata felice e che ho perso. Eppure, sono perdite ben differenti. La campagna mi è sgusciata via come l’infanzia, ma Milano invece mi spaventa, l’ho abbandonata prima che mi rendesse triste e ora ho la sensazione che non potrei amarla più.
Se la natura aiuta a ridimensionarsi, mi sembra che la grande città renda le persone simili a dei giganti fantasma: il peso che portano resta spesso invisibile agli altri.
Forse, quando dalla provincia ci si trasferisce a Milano, non è lei che ci promette qualcosa ma siamo noi a farci la nostra promessa. La città poi ci valuta e basta, misura la nostra fermezza.
Adesso che la frequento solo come turista, sento che non devo a nessuno più niente, eppure per anni è stata una grossa faccenda. Per fare le scale mobili camminando, per traslocare ogni anno, per sopportare la fila quando si va a fare la spesa alle otto: c’è chi ha la città nel sangue, e chi invece è selvatico e basta.
Sempre si pensa che selvatico sia sinonimo di lottatore, ma chi è selvatico lotta solo per sopravvivere: se si può salvare senza fatica, perché dovrebbe sprecarla per nulla?
Ecco, a Milano mi sembrava proprio l’opposto: che la fatica fosse sempre richiesta, connaturale a quel barbagliare continuo.
Io ero felice, ma piena d’ambizione e sfiducia.
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Quando non ho più avuto niente da sperare, ho riposato e ho scritto. Avevo già in testa tutto, ma è stato scorticando un riccio di castagna che infine la storia s’è aperta. L’ho detta a voce alta e qualcuno ha risposto: va bene, allora prenditi tempo. E così Non per cattiveria parla proprio di chi sfugge alle conseguenze prendendosi tutto il tempo che può.
L’AUTRICE E IL LIBRO – Beatrice Benicchi, nata a Lucca nel 1995, vive a Rimini. Si è laureata in Comunicazione media e pubblicità alla Iulm e ha lavorato come copywriter in alcune agenzie di comunicazione. Fa parte del progetto editoriale Inland, magazine indipendente con base a Copenaghen, dove pubblica reportage di viaggio da luoghi estremi del mondo.
Non per cattiveria (Gramma) è il suo romanzo d’esordio: ha per protagonista Anna, 24 anni, una ragazza cresciuta in una famiglia particolare (una madre assente, un padre fallito e una nonna ludopatica) e che si sente fuori posto e senza direzione. Tutto cambia alla morte della nonna quando si scopre che dovranno liberare la casa in pochissimo tempo.
Per guadagnare qualcosa, Anna e suo padre decidono di vendere i quadri dell’anziana signora… ma spacciandoli per opera di Anna. Con questa bugia inizia un racconto ambientato tra la campagna e una Milano spietata, tra influencer e galleristi senza scrupoli. Non per cattiveria è la storia di Anna e Vincenzo e di come una bugia tira l’altra, innescando un domino di inganni.
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