Si può incrociare (e persino frequentare) una persona senza però incontrarla davvero. È quello che sembra suggerire, tra storia e letteratura, il celebre dialogo tra il Procuratore romano e il Nazareno condannato al supplizio infamante degli schiavi. Una suggestione che riguarda anche le nostre vite

La prima scena avviene in piena notte. Il predicatore ambulante Gesù di Nazareth viene arrestato a Gerusalemme nel podere detto Getsemani, “frantoio per olive”, ai piedi del monte degli Ulivi, e trasferito sotto scorta nel palazzo dei sommi sacerdoti Anna (diminutivo del nome ebraico Giovanni), e Caifa, in carica quell’anno, per un primo interrogatorio informale davanti al Sinedrio, l’unico organo politico – religioso riconosciuto dal potere romano e responsabile dell’amministrazione autonoma giudaica.

La seconda scena si consuma alle prime luci dell’alba nella sede ufficiale del Sinedrio, la cosiddetta “aula della pietra squadrata”, l’unico luogo dove, secondo il diritto ebraico, possono essere celebrati i processi capitali. Qui, con l’interrogatorio dell’imputato, viene formalizzata l’abbozzo di istruttoria avviata nottetempo. Seduta che culmina con il gesto rituale, da parte di Caifa, dello “stracciarsi le vesti” in segno di sconvolgimento emotivo davanti a uno scandalo e a un’ignominia. Dopo questo gesto plateale, il sommo sacerdote sollecita l’approvazione della sentenza: «Che ve ne pare?». E l’assemblea ratifica: «È reo di morte!».

La terza scena si svolge nel “pretorio” del Procuratore romano, Ponzio Pilato, al quale tocca ratificare o annullare la sentenza emessa dal Sinedrio. Proprio per poter essere accolto dal tribunale di Roma, il capo d’imputazione è di tipo politico: “Abbiamo trovato costui che sobillava il nostro popolo, impediva di dare tributi a Cesare e affermava di essere il Cristo re”, riferisce Luca.

Ponzio Pilato, Procuratore di Giudea dal 26 al 36, “uomo per natura inflessibile e, in aggiunta alla sua arroganza, duro, capace solo di concussioni, violenze, rapine, brutalità, torture, esecuzioni senza processo e crudeltà spaventose e illimitate”, secondo il ritratto al vetriolo dedicatogli da Filone, filosofo ebreo di Alessandria d’Egitto, inizia a interrogare l’imputato con distacco e quasi con un senso di fastidio ottenendo risposte reticenti o il silenzio.

Fuori, il tumulto cresce e Pilato, comprendendo di essere di fronte a un caso carico di ambiguità e sfumature, temporeggia. Non ratifica subito l’accusa giudaica, ma apre un supplemento d’istruttoria. Per tre volte, secondo il racconto degli evangelisti, replica ai giudei: “Non ho trovato in lui nulla che meriti la morte“, scatenando l’accanimento della folla e dei sacerdoti con Matteo che mette in scena tutto il popolo in una dichiarazione di totale e ufficiale responsabilità: “Il suo sangue ricada su di noi e sui nostri figli!”.

È una delle fasi più concitate e drammatiche. Pilato, che teme per l’ordine pubblico alla vigilia di Pesach, cerca di prendere tempo e intanto interroga Gesù sul suo “regno” e sulla “verità”. È Giovanni a riferire il dialogo in una scena divenuta celebre e che varcherà i secoli: “Disse Gesù: ‘Io sono nato e venuto nel mondo per rendere testimonianza alla verità. Chiunque è dalla verità ascolta la mia voce’. Rispose Pilato: “Che cos’è la verità?“».

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A questo punto il Procuratore, forse con un filo di provocazione, cerca di dirottare il processo verso un esito sgradito al Sinedrio. Prima, annota Luca, spedisce l’imputato da Erode Antipa, il figlio di Erode il Grande che aveva giurisdizione sulla Galilea, la regione in cui Gesù aveva iniziato la sua “pericolosa” attività di predicatore. L’espediente fallisce e allora il Procuratore ricorre all’applicazione del “privilegio pasquale”, un atto di clemenza non meglio precisato e descritto da Matteo in questi termini: “Il governatore era solito, per ciascuna festa di Pasqua, rilasciare al popolo un prigioniero, a loro scelta. Avevano in quel tempo un prigioniero famoso, detto Barabba. Pilato disse loro: ‘Chi volete che vi rilasci: Barabba o Gesù chiamato il Cristo?'”. Anche questo tentativo, però, fallisce e di fronte alla netta resistenza delle autorità giudaiche, che coinvolgono anche la cittadinanza di Gerusalemme nella corale richiesta di condanna capitale, Pilato fa marcia indietro.

Il tumulto non si placa. Incombe Shabbat. Pilato deve prendere una decisione. E qui entra in scena la moglie del Procuratore, Claudia Procula: “Non toccare quell’uomo giusto perché oggi fui molto turbata in sogno per causa sua”, dice la first lady, allegando una sorta di rivelazione soprannaturale e dimostrando di essere intimamente coinvolta nel caso di quel condannato.

Prima di emettere la sentenza, il Procuratore compie un gesto che diventerà nei secoli simbolo proverbiale di pusillanimità e indifferenza: “Pilato, visto che non otteneva nulla, anzi che il tumulto aumentava, prese dell’acqua e si lavò le mani davanti alla folla, dicendo: ‘Non sono responsabile di questo sangue. Pensateci voi!‘”. Una scena che sarà ripresa da Michail Bulgakov nel finale del romanzo Il Maestro e Margherita dove emerge un Pilato tormentato che guarda impietrito la luna, davanti ai cocci della brocca nella quale si era lavato le mani in quel giorno fatidico.

Anche se, qualche anno dopo il “caso Jeshua”, Pilato sarà rimosso dall’incarico, per ordine del legato di Siria Vitellio, il nome di questo funzionario romano risuona ancora oggi, ogni domenica, sotto le volte delle chiese di tutto il mondo, ripetuto da milioni di persone nel Credo: “Fu crocifisso sotto Ponzio Pilato”. E questo perché la sua vita si è un giorno incrociata con quella di un (apparentemente) modesto suddito di una provincia sperduta della potenza imperiale romana.

Gesù Pasqua

La scena che si apre adesso è calma e tranquilla. A immaginarla è Anatole France nel romanzo Il Procuratore di Giudea (1902). Siamo a Baia, Campi Flegrei, nel I secolo dopo Cristo. Due vecchi amici, ritrovandosi per caso dopo molti anni, iniziano a ricordare le avventure passate e a consolarsi reciprocamente dei malanni presenti. Uno di loro è Ponzio Pilato e questo, inevitabilmente, suscita immediatamente una certa curiosità e anche qualche aspettativa. L’altro è il prefetto Elio Lamia che era divenuto amico di Pilato a Gerusalemme durante gli anni dell’esilio al quale fu condannato da Tiberio per aver intrattenuto una relazione adulterina con Lepida, moglie del console Sulpicio Quirino.

Il Procuratore è un uomo stanco, sfiduciato, afflitto dalla gotta che lo tormenta. È profondamente amareggiato perché la sua carriera politica non è andata come avrebbe voluto e non ha raggiunto gli incarichi che riteneva di meritare. Si è ritrovato contro l’ostilità e l’invidia dei suoi colleghi, al punto da essere calunniato, osteggiato, umiliato, fino ad essere costretto a ritirarsi dalla scena politica. Gli è stato fatale lo scontro con il detestato popolo ebraico che gli ha stroncato di fatto la carriera. Un popolo troppo ossessionato dalla religione, dai riti, da leggi astruse e incomprensibili agli occhi del Procuratore, uomo tutto “law e order” che, dialogando con Lamia, arriva a dire che «non si riuscirà mai a domare un popolo simile».

France, sorprendentemente, mette in scena un Pilato lontano da ogni inquietudine, da ogni angoscia esistenziale e soprattutto da ogni pentimento.

E il processo a Gesù? Nessun accenno diretto. Scorre in filigrana, per accenni e allusioni lievi. Il Procuratore, senza mai fare il nome, evoca di tanto in tanto “un giovane taumaturgo proveniente dalla Galilea”, “un invasato che si mise a gettare a terra le gabbie degli uccelli prendendosela con i mercanti”, “un qualche miserabile in preda al delirio profetico”. Ricorda, con un certo fastidio, che “gli ebrei, circondando come in preda alla follia la mia sedia d’avorio, esigevano la morte di qualche infelice di cui io non potevo discernere il delitto e che giudicavo fosse semplicemente tanto folle quanto i suoi stessi accusatori”.

È mai possibile che nella memoria del Procuratore non sia rimasto nulla dell’incontro con quel condannato?

“Il principale insegnamento di questo magnifico racconto, che ha il grande merito di non trasformare il processo al Nazareno nel centro della vita del Procuratore”, ha scritto il filosofo Silvano Petrosino in un commento al racconto di France, “è che Pilato non ha incontrato Gesù, lo ha solo incrociato, si è solo imbattuto in lui, ha solo trascorso pochi minuti insieme a lui, e tutto questo non basta certo a stabilire un incontro. Per incontrare non è sufficiente che qualcosa o qualcuno incroci il nostro cammino e ci venga incontro ma è necessario che anche noi gli andiamo incontro, aprendoci a esso, cercandolo, attendendolo e soprattutto desiderandolo. Bisogna infatti riconoscere che l’attesa e il desiderio costituiscono le condizioni stesse di possibilità di un incontro: senza quell’attesa e quel desiderio, senza il contributo e la partecipazione di quell’attesa e di quel desiderio, nessun incontro, fosse anche l’incontro con la Verità o con Dio, potrà mai prendere forma. In tal senso – come se la Verità non bastasse a sé stessa e attendesse ogni volta, drammaticamente, la risposta e il riconoscimento di colui al quale essa si rivela – un incontro, un vero incontro, è proprio l’evento che è impossibile dedurre, prevedere, programmare o imporre”.

Accade anche nella nostra vita. Il futuro non è l’avvenire. Il primo si progetta, si programma, può essere pianificato. Il secondo accade. È l’imprevisto, l’imprevedibile, l’inedito. Innamorarsi, la nascita di un figlio, una tragedia, una delusione. Non posso uscire con una persona mettendo in conto di innamorarmi di quella persona. Incontrare l’altro ha una ratio, una misura, certo, ma non abita nel progetto, sfugge alla nostra pretesa di controllo.

Come accendere il desiderio dell’altro è quello che si chiedono i pubblicitari e gli esperti di marketing, i cosiddetti “organizzatori di eventi”. Non c’è un algoritmo che dia la risposta. Non basta organizzare un incontro perché questo avvenga, non basta organizzare un “evento” perché questo accada.

E la famosa domanda sulla verità posta da Pilato a Gesù? Anatole France neanche la menziona. “A me”, scrive Petrosino, “sembra estremamente significativo questo silenzio. Probabilmente era una domanda finta, posta per finta, slegata da una qualsiasi ricerca e da un vero desiderio; era una domanda che non attendeva una risposta ma che sfidava; era la domanda di un interrogatorio e non di un’interrogazione –, riconsegnandoci di conseguenza la figura del Procuratore nella sua più concreta e orizzontale quotidianità”.

Lo scrittore fa dire esplicitamente a Pilato che “la mia memoria non si è indebolita”. E quindi, a rigore, il Procuratore non ha dimenticato Gesù perché, semplicemente, non l’ha incontrato.

La chiacchierata prosegue ma il lettore speranzoso di ricevere qualche rivelazione in zona Cesarini sul “caso Jeshua” resta ancora deluso. Poi un lampo improvviso, un’allusione sottile. Elio Lamia si ricorda non di Gesù – egli, a differenza dell’amico Ponzio, non lo ha neppure incrociato – ma di un’affascinante «ebrea di Gerusalemme», una danzatrice dalla bellezza conturbante e sensuale. La fedeltà a quella passione lo induce a setacciare i ricordi, rievocando il fatto che “le ebree mi piacevano molto e che le donne di Siria mi davano un grande turbamento di sensi”.

Pilato replica con una tirata moralista (“consentimi di dirti che hai troppo sacrificato alla Venere dei trivi”) e mentre continua a parlare, France osserva che “l’esiliato di Tiberio non ascoltava più il vecchio magistrato. Vuotata la sua coppa di Falerno, sorrideva a qualche immagine invisibile”.

Dove Pilato si arresta perché la sua rievocazione del passato è legata al rimpianto sterile di quello che avrebbe potuto essere e non è stato (e non sarà mai più), Lamia invece avanza, ricordando non solo ciò che fu ma, rapito ancora una volta da quella donna, ne fa memoria, rivive, come dimostra il suo sorriso, quella passione impetuosa, continuando ad andare incontro, a suo modo, a ciò che da allora non ha smesso di andargli incontro attraverso quella danzatrice ebrea dalla “folta chioma rossa, gli occhi annegati di voluttà, ardente e languida, flessuosa, che avrebbe fatto impallidire d’invidia la stessa Cleopatra”.

Pilato ora tace e Lamia prosegue a parlare raccontando che quella misteriosa danzatrice «un giorno disparve, e non la rividi più. La cercai lungamente nei vicoli malfamati e nelle taverne. Era più difficile fare a meno di lei che del vino greco. Qualche mese dopo che l’avevo perduta, seppi, per caso, che si era unita a un piccolo gruppo di uomini e di donne che seguivano un giovane taumaturgo della Galilea. Si faceva chiamare Gesù il Nazareno, e fu crocefisso non ricordo per quale delitto. Ponzio, ti ricordi di quest’uomo?».

Ponzio Pilato, scrive France, “aggrottò le sopracciglia, si portò la mano alla fronte come chi cerca qualcosa nella propria memoria. Poi, dopo qualche istante di silenzio, mormorò: ‘Gesù? Gesù il Nazareno? No, non ricordo'”.

Forse, seguendo il filo di questo racconto, Pilato, pur avendolo incrociato, non ha mai incontrato veramente Gesù mentre Lamia, che non lo hai mai incrociato, lo ha incontrato attraverso la passione e la curiosità suscitatagli da quella donna che, a un certo punto, aveva inspiegabilmente lasciato ogni cosa per seguire quel predicatore ambulante condannato, in un venerdì di primavera degli inizi degli anni ’30, al supplizio infamante degli schiavi.

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