A lungo i poeti italiani non hanno potuto non fare i conti con la sua eredità. Un approfondimento dedicato alla vita e alle opere del poeta Eugenio Montale (Genova, 12 ottobre 1896 – Milano, 12 settembre 1981), premio Nobel per la letteratura nel ’75

In un articolo intitolato E allora io tolgo Montale e aggiungo Volponi, uscito sul Corriere della Sera il 4 luglio 1998, Giovanni Raboni, commentando i dieci maestri del Novecento letterario italiano di Cesare Segre, stila la sua personale lista di romanzieri e poeti annotando: “Montale non si può togliere? Certo che non si può togliere: siamo tutti suoi allievi, suoi figli, suoi nipoti; e io lo tolgo lo stesso”.

L’affermazione è certamente provocatoria, ma rivela una verità di fatto: fino a un certo punto non era possibile, per chi volesse scrivere e pubblicare poesia in Italia, non fare i conti con l’eredità di Montale; e non perché era ormai un nome obbligato in qualsiasi curriculum scolastico o universitario o in qualsiasi antologia, ma perché la sua figura è stata così grande, quasi ingombrante, nel nostro panorama letterario da non poter essere affatto ignorata: forse mai nessun poeta, nella nostra storia della letteratura, ha rivestito la centralità di Montale, forse a nessuno è toccato il compito di farsi epitome e monumento di un’epoca com’è stato per l’autore degli Ossi di seppia – nel bene e nel male, tanto per quelli che lo ricoprivano di allori quanto per gli altri che lo leggevano come “l’ultima incarnazione del borghese onesto di onesta memoria” (sono parole di Edoardo Sanguineti dall’introduzione dell’antologia einaudiana Poesia italiana del Novecento).

Curiosamente, questo destino è toccato a una figura anomala: all’uscita del suo primo libro – un volume già pienamente maturo -, nel 1925, pubblicato dal torinese Gobetti (che non era solito pubblicare lirica), Ossi di seppia creava disagi alla maggior parte dei lettori (non a caso in una recensione Sergio Solmi annotava che “come ogni poesia schietta, anche quella del Montale deve trovare lentamente il suo clima”): troppo sperimentale per i lettori di poesia tradizionale (quelli, ed erano la maggior parte, che leggevano Ada Negri), troppo tradizionale per i furori avanguardistici che ancora impazzavano nei circoli letterari.

Non si sa bene dove collocarlo, insomma, questo Montale, la cui formazione da autodidatta, da una periferia culturale come Genova, è una tappa centrale in questo cammino poetico: “leggo molto per conto mio: strambissime cose per lo più”, scrive in una lettera del 4 agosto 1919 a Francesco Meriano, “ogni tanto scribacchio, ma sono proprio della triste categoria degli incontentabili”.

Sono gli anni in cui scrive le prime poesie ed è continuamente tormentato: “nervi esauriti, costituzione debole e psicologia pochissimo aderente alla vita di tutti i giorni; ecco ciò che mi affligge da anni in modo sempre più grave rendendomi inadatto alla vita pratica non meno che a quella intellettuale”. Sono parole che scrive in una lettera a Sergio Solmi nel 1921, ma che scandiranno a lungo la sensazione di camminare continuamente sul filo del rasoio (“felicità raggiunta, si cammina / per te sul fil di lama” non a caso inizia così una poesia degli Ossi). Questa scissione del soggetto, questa frattura, questo scontro col mondo si riversano nella prima raccolta poetica, tutta creata sul suono (e la poesia per Montale, come ribadisce ancora nel discorso per il conferimento del premio Nobel, è innanzitutto sonorità) duro della spiaggia, sulla luminosità abbacinante del meriggio, che fa da sfondo, anzi è essa stessa la rivelazione di una profonda inquietudine psicologica, metafisica e morale, che si proietta nel mondo naturale, nella struttura ritmica, nella tensione non risolta fra tradizione e liberazione dai vincoli formali, nell’insufficienza della parola: una poesia che “dovrebbe logicamente tendere al mutismo” e pure “è costretta a parlare” (sono parole dello stesso Montale in una recensione agli Strumenti umani di Vittorio Sereni e che pure si adattano alla perfezione alla propria ricerca poetica).

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Montale non è un poeta grafomane: passano quattordici anni fra il suo primo libro e Le Occasioni, pubblicate a Torino nel 1939. In questa ampia parentesi avviene un incontro decisivo: nella primavera del 1933 una giovane italianista americana, affascinata dalla lettura degli Ossi, si reca in visita a Montale, allora direttore del Gabinetto Vieusseux: si tratta di Irma Brandeis, dedicataria del secondo libro, e nasce una lunga e tormentata storia d’amore e un corrispettivo romanzo in versi (la cui protagonista prende il nome di Clizia), che ha il suo centro nelle Occasioni (in particolare nella sezione dei Mottetti) e nella Bufera, ma sarà presenza costante in tutta la produzione montaliana, fino agli ultimi versi (così viene ricordata quella stagione in Clizia nel ’34, poesia contenuta in Altri versi, ultima raccolta del poeta: “Sempre allungata / sulla chaise longue / della veranda / che dava sul giardino, / un libro in mano forse già da allora / vite di santi semisconosciuti / e poeti barocchi di scarsa reputazione / non era amore quello / era come oggi e sempre / venerazione”).

Nel ’38, con l’aggravarsi della situazione politica italiana e la prossima disoccupazione, Montale medita un trasferimento, poi naufragato, in America per ricongiungersi con Clizia (scrive a Bobi Bazlen il 4 agosto di quell’anno: “che altra via di uscita ho, tra il colpo di rivoltella e il… piroscafo?”). Intanto nel ’39 esce Le Occasioni, il cui titolo, derivato da Goethe, già avverte di una concezione della vita come attesa d’un evento miracoloso (come può essere l’apparizione di una Clizia-angelo con la fronte coperta di ghiaccioli per la traversata di “alte nebulose”), di possibilità di vedere un’altra realtà, o una realtà diversa da come appare abitualmente. “Una larga seppure indiretta pietà”, scriveva nel ’73 Vittorio Sereni a proposito di questa raccolta, “un’acuta chiaroveggenza esercitata sui fatti della vita, tale da superare desolatamente gli oggetti ma spesso arrendevole alla loro possibilità d’esistere, così da diventare un’amorosa veggenza: in questo sembra consistere il dono delle Occasioni”.

In questo libro si chiarisce e approfondisce, poi, il ruolo che il tu svolge nelle poesie di Montale, contemporaneamente identificato in una donna precisa e insieme contemporaneamente spersonalizzato, ma comunque quasi sempre assente: “All’assente”, scrive Roland Barthes nei Frammenti di un discorso amoroso, e queste parole perfettamente si adattano a descrivere molte situazioni montaliane,  “io faccio continuamente il discorso della sua assenza; situazione che è tutto sommato strana; l’altro è assente come referente e presente come allocutore. Da tale singolare distorsione, nasce una sorta di presente insostenibile; mi trovo incastrato fra due tempi: il tempo della referenza e il tempo dell’allocuzione: tu te ne sei andato (della qual cosa soffro), tu sei qui (giacché mi rivolgo a te). Io so allora che cos’è il presente, questo tempo difficile: un pezzo di angoscia pura.”

Intanto i sentimenti apocalittici si fanno sempre più forti, con la seconda guerra mondiale il mondo sembra davvero prossimo alla fine e Montale pubblica una piccola plaquette di poesie nel 1943 intitolata Finisterre (ne vengono stampate appena 150 copie a Lugano), che andrà a costituire la prima parte di quella che è probabilmente la sua opera più importante: La Bufera e altro del 1956. Ancora molti anni separano la pubblicazione del secondo e terzo libro, nel frattempo Montale traduce moltissimo (e nel ’48 dà alle stampe Quaderno di traduzioni), inizia a dipingere (la moglie, Mosca, definirà bellissimi i quadri di Eugenio, ma l’attività da pittore resta marginale, troverà comunque spazio nei suoi versi, soprattutto quelli tardi), nel ’46 inizia la sua lunga collaborazione con il Corriere della Sera (testimoniata dagli scritti contenuti nel Secondo mestiere), nel ’49 incontra Maria Luisa Spaziani, ancora un incontro decisivo per le vicende del romanzo d’amore che si va componendo nei suoi libri: questa volta sarà il personaggio di Volpe a dare voce a una vena più marcatamente sensuale nelle pagine della Bufera, che vedrà la luce nel giugno ’56 per Neri Pozza – e lo stesso anno, a Natale, lo stesso editore pubblica la raccolta di racconti, in un’edizione fuori commercio, La farfalla di Dinard.

La Bufera, per certi versi, rappresenta un’evoluzione e una prosecuzione ideale delle Occasioni, e contemporaneamente anticipa molti degli aspetti caratteristici della svolta attuata con Satura: qui l’assenza, oltre che dell’amata, si fa anche dei morti, e si approfondisce la figura femminile, sempre più connotata come una moderna Beatrice, al tempo minacciosa e benigna, che possa opporsi alla degradazione, alla violenza, alla distruzione e alla morte: ma la speranza per un mondo diverso, da trovare o fondare dopo la bufera della storia, si tramuta presto, con la delusione del dopoguerra, in angoscia per la fine incombente di un’intera civiltà.

Questo stessa delusione si avverte in Satura (1971), ma i toni sono cambiati: lo stesso Montale, ormai vecchio, avvertiva che se i suoi primi tre libri erano il recto della sua produzione, la fase inaugurata da Satura ne rappresenta il verso. E, infatti, già a partire dal titolo si sottolinea questo cambiamento: satura non tanto (non soltanto) come satira, ma piuttosto, etimologicamente, come piatto vario: e infatti in Satura convivono i soffertissimi Xenia per la moglie morta, l’ironia, il sarcasmo, l’invettiva, la denuncia, l’autoparodia: il mondo è ridotto a una stalla, si naviga non più in balia di una bufera, ma su laghi di melma e di immondizia e i toni devono, di conseguenza, adeguarsi a questa nuova situazione. È la nuova civiltà dei consumi e del benessere l’oggetto di molte poesie di questa fase e il vecchio Montale se ne sente totalmente estraneo, la sua stessa poesia viene percepita come ormai esaurita e viene costantemente ripresa e talvolta scimmiottata.

E Montale a queste caratteristiche si manterrà sostanzialmente fedele nei suoi ultimi libri: Diario del ’71 e del ’72, Quaderno di quattro anni e Altri versi. Le speranze sono abbandonate, la metafisica sembra non offrire più risposte (“Si tratta di arrampicarsi sul sicomoro / per vedere il Signore se mai passi / Ahimè, non sono un rampicante ed anche / stando in punta di piedi non l’ho visto”), al poeta non rimane che concedersi qualche scherzo, rifugiarsi nell’ironia, rievocare il passato e la memoria, ritrovare attimi nel vissuto quotidiano, senza rinunciare alla speculazione, all’invettiva, all’accusa, pur ormai perso definitivamente il rigore tragico dei primi libri.

Non rimane che accontentarsi della sua vita vissuta al “cinque per cento”. In una cartolina postale del 12 ottobre 1935 indirizzata a Sergio Solmi, Montale scriveva: “Non è stato saggio puntar tutto su un po’ di letteratura e rinunziare alla vita, che dopo tutto è l’unica cosa che abbiamo. E non è stato neppure coraggioso. Ma ormai è inutile recriminare”.

Quasi quarant’anni dopo così concludeva il Diario del ’71 e del ’72: “Raccomando ai miei posteri / (se ne saranno) in sede letteraria, / il che resta improbabile, di fare / un bel falò di tutto che riguardi / la mia vita, i miei fatti, i miei nonfatti. / Non sono un Leopardi, lascio poco da ardere / ed è già troppo vivere in percentuale. / Vissi al cinque per cento, non aumentate / la dose. Troppo spesso invece piove / sul bagnato”.

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